Serata pigra. In frigo ci sono poche cose e
nessuno ha pensato alla cena. Si tratterebbe di scaldare qualche vecchia pizza
messa a congelare come una mutanda ripiegata su se stessa. I soliti buoni propositi: "Dobbiamo
programmare. Programmare. È chiaro? Non possiamo arrivare alle otto e aprire il
frigo per vedere che c'è...". No, infatti. Taccio sul fatto che sono 48
anni che va avanti così: mutande ripiegate, attacchi al sacchetto della farina
per assorbire carboidrati, succhiare würstel congelati come fossero un calippo,
frutta compulsiva e acida scansando gli insetti che ci hanno trovato casa.
Bene. Sono giorni che passo davanti ad un cartello in calle 20. Il cartello
promette bene: Olivo. Mi tornano su, come i würstel congelati, immagini di
Romano Prodi che sventola una bandiera e sembra un idiota al circo. Poi, negli
anni, si è rivelato un idiota al circo, ma questa è un'altra storia. Ok,
andiamo.
Conosco il posto. Fino a poco tempo fa c'era il ristorante italiano
Tres Medallas di proprietà di una campionessa olimpica di cui non ricordo il
nome. Poi ha chiuso. Oggi ci avviciniamo timidamente. Chiediamo un menu per
vedere se non ci arriva una tortorata e lo soppesiamo. Forse una tortorata no
ma una mezza pizza (schiaffone, per quelli nati fuori dal Raccordo Anulare),
sì. Il ristorante è semivuoto. Diffidenza. Vecchi imperativi categorici che
recitano: "Vai sempre nei ristoranti dove vedi tante macchine
parcheggiate, meglio se camion. Lì si mangia bene e si spende poco",
iniziano a mulinare nella testa come parole di Giovanni XXIII. Vabbè, ormai ci
siamo. Menu interessante: almeno nelle intenzioni piatti diversi dai soliti.
Cucina spagnola. Dettagli importanti. Ingredienti introvabili. Zafferano, per
esempio. Chiedo un Gazpacho e una paella mista mentre Dalia prende un Gazpacho
e una lasagna nella variante spagnola. Da bere Bucanero marmorizzata,
ovviamente. Dopo un po' arriva un uomo. Di colore sui sessanta y algo. Stanco.
Ci saluta. Si chiama Jose. Dà due ordini in cucina e poi torna da noi. Ci
domanda se abbiamo ordinato e poi si siede. Si passa la mano sul viso e capisco
fino all'ultima cellula la sua stanchezza. Si racconta. Per 18 anni chef in
Spagna, soprattutto a Barcellona. Uomo colto. Cita scrittori, film, e poi
sapori. Dice: "Un uomo non deve tendere ad un luogo che si trovi più in là
della propria ombra", e questa frase mi lascia davanti ad un burrone
inaspettato. Racconta del suo concetto di cucina, del suo concetto di buono.
Non gli interessa mettere in piedi un ristorante solo per alzare quattrini.
Certo, quelli servono e non nasconde di averne investiti parecchi qui. Gli
interessa uscire dall'uniformità di sapori di L'Avana. Gli dico che sono molto
d'accordo. Ci stiamo simpatici. In effetti le difficoltà di approvvigionamento
della materia prima e l'obbligo di acquisto nei negozi comuni confina i sapori
dei ristoranti all'interno di un range limitato. Mi racconta la sua stanchezza:
si è alzato alle due del mattino la sera precedente per tentare di assicurarsi
il filetto migliore in qualche tienda. Numeretti e fila, una roba del genere.
Poi il filetto non è arrivato. Ha gli occhi stanchi. Sullo sfondo tristi, o no,
spaventati. Ha paura di non farcela. Ha aperto da un mese e quasi si scusa per
il ristorante semivuoto. Intanto ci servono il miglior Gazpacho di L'Avana.
Chiacchieriamo. Si spazia tra opinioni sulla cucina italiana, su quella cubana,
su quella cinese. Sa veramente il fatto suo. Ma, come al solito, è la persona
che mi colpisce. Non lecca il culo. Lontano da quei proprietari suadenti che fanno
gli amici e che ti armano una festicciola che sa di muffa. Lui ti parla della
sua paura e delle sue certezze. Sa cucinare. Davvero. Quando arrivano la
lasagna e la paella si scusa, si passa di nuovo una mano sulla faccia e ci
saluta. Va a dormire. È stanco. Mangiamo la migliore paella e la migliore
lasagna di L'Avana. Continuiamo a chiacchierare tra noi. Un trago di rum per
finire e poi un conto abbastanza onesto. Prima di andare via mi viene in mente
una frase di Zeman che adoro: "Il risultato è casuale, la prestazione
no". Cerco di applicarla a quel ristorante, a quell'uomo. Spero col cuore
che tutto gli vada bene. Un mese non è niente. L'avviamento di un ristorante è
duro e pieno di incognite. Il successo, poi, dipende da fattori spesso incontrollabili.
Quello è il risultato. La prestazione invece sta là. La lasciamo nei piatti
vuoti e la commentiamo tornando a piedi verso casa. Eccellente. Come boe
affondate tornano in superficie tutte quelle volte in cui ho vissuto
quell'incertezza, quella paura, quell'investimento sul mondo. La prestazione
migliore possibile e poi quell'attesa del risultato. Mi ripropongo di scriverne
su questo blog. Ed eccomi qui. All'Olivo, in calle 20, tra calle 3 e 5 a
Miramar si mangia in modo davvero unico. E c'è un buon sapore di umanità.
Fidatevi.