In un periodo storico come questo dove, in nome di
qualche dio a caso, si sgozzano vignettisti, ci si fa esplodere negli autobus,
si decapitano "stranieri", parlare di temi relazionati con la
spiritualità sembra come stuzzicare una ferita infetta per semplice sadismo.
Forse non è un periodo straordinario: basta agitare bene la bibita frizzante
delle religioni ed escono fuori parole tipo "crociate",
"antisemitismo", "attacchi al gas nervino nelle
metropolitane". Vista così la questione, emerge lo stesso istinto di
difesa che nasce in Italia verso la politica: la politica è roba sporca, meglio
non metterci il naso. Si confonde una delle dimensioni più evolute dell'uomo,
l'amministrazione e l'immaginazione della cosa comune, con quattro poveracci
sporchi, loro sì, che scegliamo per realizzarla.
La politica è l'alternativa
alla barbarie, i politici inadeguati sono la barbarie che rientra dalla
finestra. Le religioni non escono da questo schema. Nascono, molte di esse,
come discipline dello spirito, intuizioni favolose di uomini straordinari,
percorsi incredibili, e poi diventano religioni. Diventano chiesa.
Appartenenza. Fede calcistica. Identificazione. Per usare le parole di
Buddhadasa, diventano "Io e mio" e quando c'è qualcosa percepita come
io-mio, c'è qualcosa da difendere, qualcosa da imporre, qualche minaccia da
eliminare. Nessuna religione è storicamente esente da questo tipo di
storpiatura: si sono fatte mostruosità in nome di Cristo, di Maometto, del
Buddha e di chiunque altro. Non ho rispetto per le religioni intese come fede
calcistica ma credo che molto del senso di questo strano viaggio che è la vita
possa derivare dalla coltivazione di un atteggiamento spirituale. Perchè parlo
di questo in questo blog? A Cuba direbbero: "Porque me dà la gana!"
(perchè mi va!) ma in realtà lo spunto viene da una mia passeggiata in Quinta
avenida. All'altezza di calle 32 in un pomeriggio sonnolento, laddove le
splendide ville liberty sono in realtà una rassegna di rappresentanze
diplomatiche ed ambasciate, noto qualcosa di familiare: una festa. Ma non una
festa qualunque: i festoni tipici e certe immagini mi accendono immediatamente
un sospetto. Non sarà mica il Vesak? Mi avvicino. L'ambasciata è quella dello
Sri Lanka e tutto quadra. Paese buddhista. Luna piena. Un'immagine stilizzata di
Siddharta nella posizione del loto. Ricordi. Il Vesak è la festività buddhista
più importante. Si celebrano la nascita e l'illuminazione del Buddha. Mi
avvicino al cancello e cerco di catturare l'attenzione di due tizi. Uno cubano,
probabilmente della sicurezza, ed uno srilankese. Sillabo: "Vesak?"
due o tre volte e scateno due atteggiamenti opposti: chiusura da parte del
cubano, fastidio, protezione, io-mio. Mentre sul viso dello srilankese si
accende un sorriso. Uno di quei sorrisi orientali che aprono la porta alla
pace. Quest'ultimo mi conferma che è il Vesak e senza smettere di sorridere mi
invita ad entrare. Mi piace pensare che in questa differenza di atteggiamenti
si nasconda, in realtà, il destino del pianeta. Uscire dalla barbarie, a mio
avviso, passa attraverso l'elaborazione e l'abbandono di questo grumo di
problemi: l'io-mio. Questo accumulo di energie che ci rende preoccupati e
infastiditi, questo ingorgo, questa premessa alle neoplasie dell'anima, che su
larga scala è accumulo di risorse planetarie nelle mani di pochi, ed è,
dall'altra parte della medaglia, povertà, umiliazione, miseria.
Ho
dedicato venticinque anni della mia vita al Buddha. Non al buddhismo. Con i
miei infiniti limiti ho cercato i fili sottili di questo viaggio, un respiro
alla volta, molto spesso con la mia tipica andatura di un passo avanti e dieci
indietro. Ma non ho mai smesso. E se c'è una cosa che in venticinque anni credo
di aver capito sempre con maggiore profondità è il contenuto di un messaggio
che ho letto una volta su una maglietta in India: no self, no problem. È tutto
lì. Se non c'è un io-mio, non c'è neanche niente da difendere, non c'è paura,
non c'è minaccia, non c'è nulla da imporre, non c'è accumulo, non c'è
l'inferiore nè il superiore. E questa verità non ha nomi nè chiese. E il Buddha
l'ha vista per la prima volta 2500 anni fa non per mettere in piedi una chiesa
ma per indicare un percorso.
Un
sorriso al posto di una chiusura. Facile a dirsi ma probabilmente il compito
che impegnerà l'umanità nei prossimi 1000 anni di evoluzione. Enorme uomo il
Buddha, e poco mi interessa se sia un dio.
Succede anche questo camminando per Quinta, in un pomeriggio qualunque:
ti avvicini ad un cancello ed un sorriso ti apre il ricordo del senso di un
viaggio.