Sono
continuamente alla ricerca di luoghi in cui scrivere all'Avana. È dai primi
anni che sono qui che vivo in questa specie di ossessione: cerco il posto
ideale ma non è facile. Poi finisco sempre a scrivere a letto di casa mia, al
limite su una poltrona, ma conservo sempre la speranza di trovare il Posto.
Qualche giorno fa sono andato in un locale che si trova su 23 in Vedado, mi
sembrava quello giusto. Un locale in pesos cubani dal doppio nome, uno più brutto dell’altro, tipo
Frankfurt o anche Casa del perro. Come se lasciassero a te la scelta della
corda con cui impiccarti. Comunque tavoli sporchi, ubriachi in qualsiasi
fascia oraria, scelta misera di un paio di marche di birra e qualche rum da
poco e, soprattutto, nessun turista. Mi siedo e mi do un tono.
Prendo una birra e cerco di
scrivere qualche parola. Niente. Idiozie. Non mi concentro. Preferisco guardare
la gente che passa. Mi confondo. Recito la parte dello scrittore. Non scrivo.
Il cameriere mi guarda perplesso. Di coglioni ne ha visti a migliaia. Uno in
più non fa differenza. Faccio finta di avere illuminazioni improvvise ma sono
fiotti di nulla. Passo una ventina di minuti e poi me ne vado. Cammino per 23
fino alla Rampa, poi svolto a destra e vado verso Infanta. Do un'occhiata alla
Ostionera, all'angolo con San Lazaro, ma mi sembra troppo. Non accettano
clientela che non abbia una cirrosi epatica dimostrabile. Continuo a camminare.
Penso che i locali degradati alla fine mi fanno cacare. Quel clichè un po'
stanco dello scrittore nei locali fumosi mi mette tristezza. Penso a qualcosa
di minimamente più elevato. Forse all'Avana Vecchia potrei trovare quello
giusto. Arrivo su calle Brasil e mi domando se sia una bella via. Non lo so.
Qualcosa di questa strada mi piace ma non capisco cosa. Forse quel breve tratto
all'altezza della farmacia storica ma non lo so... Entro in un bar lì davanti.
Promette bene: ha un nome tipo "Cafè de los artistas" o roba del
genere. C'è una tv accesa che incombe sulla sala. Video di musica orrenda. Mi
metto a guardare. Mi soffermo sulla lentezza delle cameriere. Sulla noia.
Potrei scrivere della noia. Potrei scrivere sulla cultura dell'attenzione al
cliente a Cuba. Penso che il motto potrebbe essere: "il cliente è
merda". Buona idea? Non credo. Prendo una birra calda e la pago il doppio
del normale. Neanche tiro fuori il mio Ipad. Non ho niente da dire. Guardo
qualche donna che passa e mi avvilisco. Forse non è un locale quello che cerco.
I locali distraggono. Finisco sempre a guardare le persone. Finisco sempre a
preferire la realtà alle parole. Lo trovo sano ma penso a Bukowski che scriveva
dovunque. Forse non è un locale quello che cerco. Pago e scappo da quel cesso.
Arrivo a Piazza Vecchia e mi siedo su un marciapiede nei pressi della
cervezera. I turisti ordinano serbatoi di birra e dicono cazzate. Non mi
piacciono i turisti. Questa loro voglia di mettere la loro bandierina di
abitudini dovunque. Bevono la loro birra, parlano ad alta voce. Stanno
arrivando gli americani e non mi prende bene. Penso che la cosa che odio di più
sono i boccali termici che gli anglosassoni si portano dentro alle piscine e
bevono dicendo stronzate. Sì, non c'è niente di peggio nell'universo. Non sono
dell'umore. Palpeggio il mio Ipad e lo tratto come un cane svenuto. Non
reagisce. Continuo a camminare. Arrivo al Malecon. Mi siedo in un punto e dopo
due minuti arrivano un paio di amici fraterni che conosco in quel momento.
Rispondo a monosillabi e dico di essere del Montenegro. È il trucco per non
avere commenti. Se dici che sei italiano cominciano i: "Berlusconi, mafia,
Juventus...", se dici Montenegro la conversazione piomba in un silenzio
agghiacciante. Mi chiedono se voglio sigari o troie. Al mio diniego si
allontanano. Continuo a camminare. Torno a Vedado. Ho un'idea, una visione panoramica
della città. Certo! Il posto è il bar La torre, all'ultimo piano del palazzo
Focsa. Mi siedo e mi sembra che sia tutto a posto. Poi inizio a guardare giù.
Mi gira la testa. Soffro di vertigini. Sento un brivido gelido nello sterno.
Sono agitato. Ordino una birra. Una bambina si attacca al vetro con incoscienza
e sento un tonfo nello stomaco. Vorrei salvarla. Immancabili fotogrammi delle
persone che cascavano dalle Torri Gemelle. Sono agitato. Il mio Ipad è acceso
su una pagina bianca che mi guarda col candore di un bambino polacco. Non so
che dirgli. Ho in mente una storia che voglio iniziare ma anche quel posto non
va bene. L'altezza mi terrorizza e la visione panoramica delle cose è
un'aspirazione astratta. Scendo. È quasi sera e il caldo è diminuito appena.
Torno verso casa con la coda tra le gambe. Arrivo in salotto. Mi metto in
mutande e mi bevo un litro d'acqua. Guardo fuori ma smetto immediatamente.
Chiudo la finestra e accendo la luce. Dopo pochi minuti accendo l'Ipad. Solita
pagina ma è cambiato tutto. Inizio a mettere parole in fila. Alcune mi
piacciono. Vado avanti fino a tardi. Quando mi fermo penso al rapporto tra la
scrittura e la realtà. Sono mondi che parlano l'uno dell'altro ma si incontrano
raramente. Come due amanti timidi si lasciano messaggi. Come gli amori malati
si nutrono delle assenze. E la scrittura viene dopo. Dopo tutto. Lontano da
tutto. In un posto anonimo. In un posto che sa di chiuso. In quel sogno
continuo della realtà, in quella nostalgia di futuro che al buio prende colore.