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I LIBRI DI ALESSANDRO ZARLATTI

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lunedì 15 giugno 2015

Roma, Italia, Cuba, mondo.


Cuba Italia
È difficile spiegare lo strano rapporto che si ha con l'Italia vivendo all'estero. Fra due settimane torno a Roma per una quindicina di giorni ed è un evento che si fa sentire. L'Italia si muove come una malattia autoimmune. Per lunghi periodi rimane sotto pelle ma sai che c'è ed ogni tanto torna in superficie. Fenomeni strani. Inquietudini. Stanotte ho sognato la perifrastica passiva e non so sinceramente cosa voglia dire se non che, in fondo, sono rimasto a cazzeggiare sempre fra i banchi di un liceo della capitale. Due giorni fa ho guardato un dvd che mi ha regalato un'amica italiana sulla trattativa stato-mafia, di Sabina Guzzanti. Niente di inimmaginabile ma, certo, quando lo vedi così, spiattellato come in un documentario sugli elefanti, fa un certo effetto.  Forza Italia sarebbe stato un partito nato dalle intuizioni congiunte di mafia, massoneria e destra eversiva. Ma va?
Poi ieri mi sono ritrovato per una mezz'ora al telefono col mio amico Maurizio a fare la formazione della Roma 2015/2016. La nostra formazione. Un budget di circa un miliardo di euro e, per dirne una, Ibrahimovic in panca a fare la riserva a Messi e a Ronaldo. Facile. Ossessioni e perversioni. L'Italia c'è sempre. C'è nella comunità che guardi di sbieco. Con diffidenza. Nelle categorie con cui seppellisci facce o anche soltanto modi di essere: fascista, mignottaro, mignottaro e fascista, idiota, imprenditorino-di-questo-cazzo, pensionato squallido, monnezzaro, leghista, meridionale, comunistello. Li conosco troppo bene. Non ce la faccio. Amo l'apertura di credito dei cubani che guardano certi esseri umani, che ci guardano, senza filtri. Italiani, e questo gli basta. A me no. Io no. Basta un'occhiata e so tutto. L'Italia dicevo. Quel nervo scoperto o quell'articolazione che torna a far male con i cambi di tempo. Cose che sei costretto a mettere in cantina perché se le tieni in salotto finisci disperato. Tua madre, tuo fratello, tua sorella, la Roma, cappuccino e cornetto, parlare romano, Totti, alcuni amici a cui dire "bella" o "se beccamo", parole a cazzo di cane. Ma anche quella bruttezza che ti ha fatto scappare. Un mondo scomodo. Essere troppi e traditi. Non essere più romani in fondo, non essere più qualcosa. Una somma infinita di diritti ragionevoli a costruire un mondo irragionevole e inabitabile. I figli di troia, le file in macchina, le donne che hanno perso la vena della loro femminilità, i troppi tatuaggi, il botulino, le radio private, le donne che bevono troppo, troppa palestra, le depilazioni, i maxiscooter, gli smartphone, i romeni che vogliono fare gli italiani, gli italiani che vogliono farsi le romene, una sinistra imbarazzante, il culto per gli animali domestici, le degustazioni di vini, il lardo di Colonnata, la rucola, le diete, il fisico (la parola di chi ha paura del corpo), le cannette, i "so' tre etti, lascio?", gli agriturismi, le App utili, quelle spiritose, Crozza, Fazio, Lapo. Ok, finisco sempre a cercare le ragioni di un allontanamento e non è difficile trovarle. Poi, quando sono a Roma, tiro fuori a me stesso le solite formule: "a Roma è bello fare i turisti"; "Lontano da questa follia". Ma rimane sempre una certa amarezza. È quella che ti rende inquieto quando sei qui e stai per tornare. Cuba, certo, paese incredibile, gente incredibile. Un luogo dove sono felice. Ma dall'altra parte c'è l'anima. La lingua. Un linguaggio privato che è diventato un labirinto e ti ci perdi, e quando torni ti ci ritrovi, ed ha creato la forma dei tuoi pensieri. La tua chimica, i tuoi odori. Quelli non hanno sostituti. Puoi solo metterli in uno scatolone e  stiparli in cantina. E chiudere a chiave per non vederli, perché fanno male. Per non farli scappare perché sei tu stesso.