lunedì 6 novembre 2017

Baobab experience


Voglio fare un passo indietro: marzo 2017. Un passo indietro nel tempo e uno dall'altra parte dell'oceano. In Italia, a Roma per l'esattezza. Mi trovavo lì per qualche settimana a visitare la famiglia, a festeggiare il mio compleanno e a fare una presentazione dei miei libri. Avevo sentito parlare molte volte del Baobab, non soltanto dell'albero, ma di un gruppo (come vogliamo chiamarlo?) di volontari che aveva preso questo nome e che da anni era impegnato a Roma nell'accoglienza degli immigrati. Un'amica particolarmente attiva, Marzia, relazionava quasi quotidianamente su Facebook riguardo alle iniziative, ai successi, ai problemi che questa organizzazione affrontava e da così lontano non riuscivo a mettere a fuoco niente. Capivo che c'era qualcosa di bello, di laico, uno slancio di quelli che piacciono a me, di quelli che nascono dalle migliori sfere di noi stessi e rompono un'inerzia, a volte la sordità dentro e fuori di sè.
Uno di quei giorni romani decido di andarli a trovare. Stavo col mio amico Giacomo ed era un tardo pomeriggio di inizio primavera, ancora freddo ma non troppo. L'occasione era una partita di calcio organizzata nel campo di San Lorenzo. Marzia mi aveva avvertito: "la partita sarà così... non ti aspettare granché, è la cosa in sé che è bella...". E infatti la partita non era importante. Lo abbiamo capito subito. C'erano dozzine di ragazzi che correvano dietro un pallone. Una partita trenta contro trenta come minimo. Sembrava calcio gaelico. C'era quello stiloso, quello che non la passava mai, quello che non andava per il sottile e falciava tibie a ripetizione, quello che cercava invano di dare e tenere posizioni, quello timido, quello che si faceva rispettare. Erano immigrati, tanti. Marzia ha cominciato a raccontarci sottovoce qualche storia. Grandi, forti, storie troppo forti per essere comprese da un cuore soltanto. C'era quello, poco più di un bambino, che aveva perso semplicemente tutti. Quello che aveva pagato cifre astronomiche ai suoi "salvatori" ed era stato violentato. Tutti, molti, in modi diversi violentati. Quelli sfregiati, quelli segnati per sempre, fuori e dentro. Famiglie massacrate. Sentimenti decapitati per sempre. La vita, pensavo. Questa merda di vita. Quel campo. Dove da ragazzo avevo giocato anch'io. Oggi attraversato dalle diagonali di una sofferenza incomunicabile, incontenibile. Eppure ridevano. Alcuni. Esultavano per qualche gol assurdo. Si abbracciavano. Come me quando ero ragazzo. Oggi loro. Uno si chiamava Abdul. Uno Saul, Sael, non ricordo più. Uno era brutto da far spavento, un altro aveva occhi che ti mettevano al muro. Un altro una dignità che lo teneva in disparte. Finita la partita c'era una pasto per tutti. I volontari, ragazzi della mia età, altri più giovani, uomini e donne qualunque, intirizziti da un freddo che verso le nove si faceva sentire fin dentro le ossa, a distribuire piatti di plastica e sorrisi. Ti veniva voglia di metterti in gioco anche a te. Di dividere i dieci euro che avevi in tasca in mille pezzi, di moltiplicarli, per farli felici. Perdevano valore i dieci euro, la tua pigrizia, i tuoi tormenti, il tuo tempo e sbattevi la testa contro quel muro di realtà che il tuo cinismo normalmente rende invisibile. Avevo la mia scusa: due o tre giorni e poi tornavo a Cuba. Sull'aereo ho pensato al caso. All'insostenibile forza del caso. Io romano, italiano, a cui era andata bene senza meriti, io che ero nato nella parte giusta del mondo, dall'altra parte loro, condannati alle loro tragedie per gli stessi capricci del caso, per essere nati nel mondo sbagliato, senza meriti, senza colpe.  Avrei potuto parlarne. Già. Scriverne. Per esempio avrei potuto parlare della bellezza del Baobab, di una forza di solidarietà umana che nasce dal basso, senza confessioni, senza partiti, senza secondi fini. L'impulso e seguirlo. Niente di più. Niente di meno. Togliere tempo alla propria famiglia, al proprio lavoro, alle proprie pigrizie per fare un passo soltanto dall'altra parte degli altri. Avrei potuto parlare dell'ottusità di chi vede un pericolo in questo, dei professionisti della solidarietà che con la solidarietà ci campano. Quelli del Baobab li hanno sgombrati, trattati come appestati, come delinquenti. Forse perché dietro a un pezzo di pane non facevano spuntare un santino. Chissà. Forse perché non hanno approfittato di tanta manovalanza a basso costo per farsi realizzare qualche abuso edilizio notte tempo. Mi  hanno raccontato che in due anni hanno dato dignità a più di sessantamila esseri umani. Dico sessantamila, una stadio pieno. Una doccia. Cibo. Vestiti. Li hanno portati per Roma a conoscere il bello. Le opere d'arte. Li hanno fatti giocare, perché molti di loro sono poco più che bambini, cresciuti in fretta ma con la stessa voglia di tutti di correre dietro ad un pallone e fare gol. Finalmente il bello dopo tante mostruosità. Sì, certo, tra quei sessantamila ci sarà sicuramente stato qualche delinquente, qualche stronzo, qualche ladro, qualche potenziale stupratore. Così come ci sarà sicuramente stato tra gli esseri umani colpiti dai terremoti italiani. Ma la forza della solidarietà, l'apertura del cuore, vola più in alto. È un cuore che aprendosi dona e riceve. Ci rimette in pace col mondo. Ci sarà bisogno di cuore, tanto, nei decenni a venire. Ci sarà bisogno del Baobab e di tutto quello che di buono nasce da un impulso che va controcorrente. Se vi capita dategli una mano. Sarà una mano che date a voi stessi.
https://baobabexperience.org/

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