Dopo
una breve deviazione al Baobab di Roma la settimana scorsa, torno con la testa
e con il corpo (non mi sono mai mosso per la verità) a Cuba. Lascio quella
splendida partita di calcio a San Lorenzo di qualche mese fa e mi affaccio su
qualche campetto sgangherato dell'Avana. Il calcio. Sembra un fenomeno
incontenibile. Da sempre mi domando quale sia il suo segreto. Perchè un pianeta
intero lo giochi, perchè riesca a sradicare in un lampo abitudini profonde,
tradizioni, per imporsi con tutta la sua semplicità, con tutta la sua forza.
La
semplicità, senz'altro è un elemento. Per fare una partita basta un pallone di
stracci e quattro persone disposte a corrergli dietro. Ma non è sufficiente.
Allora sarebbero più semplici ancora le gare di corsa. I pugni. La lotta. Forse
dipende dall'accessibilità. Per correre e vincere devi avere il fisico. Per
fare a pugni fisico e coraggio. Per la lotta, idem. Il calcio è diverso. Il più
grande calciatore di tutti i tempi, Maradona, era un nano tracagnotto, che si
allenava poco. Però aveva piedi. Messi, il più forte giocatore attuale è
piccolo, stortarello, eppure nasconde la palla a gente alta il doppio di lui,
infinitamente più forte. Ma c'è anche Cristiano Ronaldo, l'opposto, alto,
muscoloso. Il calcio è possibilità aperta a tutti. È arte pura. Non serve il
fisico, serve maggiore o minore distanza dall'ispirazione. Tutta questa menata
per dire che a Cuba il calcio ha soppiantato totalmente il baseball. Forse l'ho
già detto precedentemente ma confermo un processo già quasi giunto a
destinazione. Il cubano gioca a calcio, moltissimo. Così come gli italiani
giocavano per strada fino a 30/40 anni fa. Io ogni tanto mi fermo a guardare
qualche partita. Un italiano non guarda una partita per passare il tempo. Per
un italiano il calcio è una cosa seria. La più seria. Vedo talenti, accenni di
talenti, prospettive. Già qualche tempo fa ho vaticinato che nei prossimi 15
anni qui a Cuba uscirà fuori un giocatore bravo. È inevitabile. Giocano molto, giocano per
strada, chiudono il passaggio di vicoli, mettono due porte e giocano. Ma... Ma
c'è un ma. Un italiano lo sa. Per diventare calciatore non basta il talento. I
diamanti grezzi, senza un bravo tagliatore restano sassi. Il grande limite
dell'intero movimento calcistico cubano sta proprio in un detto che i cubani
usano quando parlano di se stessi. Dicono: "el cubano si no llega se
pasa...". Che vuol dire? Letteralmente: il cubano se non arriva ad una
cosa la supera. In qualche modo il riconoscimento della propria immodestia genetica.
Credo che l'immodestia sia nettamente migliore del suo opposto ma credo anche
che sviluppare la capacità di mettersi in ascolto, di sospendersi
momentaneamente sia un'altra utile facoltà. Un paio d'anni fa mi trovavo a
riparare un televisore in Vedado. Mentre il tecnico stava smontando la scocca
posteriore inizia a conversare con me. Italiano. Sì italiano. Io sono
appassionato di Umberto Eco. Il migliore scrittore italiano, vero? La risposta
era no ma non ascoltava. Poi la conversazione è scivolata sul calcio. Mi ha
chiesto due o tre sciocchezze sul tifo e subito ha iniziato a spiegarmi il
calcio. Spiegarmi. Mezz'ora di cazzate allucinanti. Presunte regole tattiche,
presunte formule del successo, algoritmi della vittoria. Io ho retto un
sorrisetto complice per venti minuti, poi, temendo la paresi, ho chiuso la
comunicazione dicendo: "sì, per noi italiani il calcio è un'altra
cosa...". Non era curioso di sapere come funzionano le cose in un paese
grande come un bilocale che ha vinto quattro campionati del mondo? Non era
curioso di sapere, di imparare, che da quando abbiamo tre anni ci straziamo le
giornate sulla migliore posizione in campo di Amenta, sui movimenti giusti di
un centravanti di manovra come Musiello, sull'arte di chiamare il fuorigioco,
di dirigere una difesa, di marcare uno veloce, sul 433, sulle virtù del 352,
del 442, sull'arte del fallo tattico. Non era curioso di sapere che da quando
avevo tre anni fino ad oggi avrò visto cinquemila partite, le avrò commentate,
tutte, con esperti di alto livello, le avrò vivisezionate, smontate, rimontate.
Non era curioso di sapere che noi italiani regoliamo la nostra vita sul
calendario di serie a, che giochiamo a calcio da quando abbiamo tre anni e
allenatori eccellenti (perchè gli italiani sono storicamente i migliori
allenatori del mondo) ci spiegano come marcare, come fare i tagli se sei una
punta, come fare l'elastico, come e quando alzare la testa, come perdere tempo,
quando fare le sovrapposizioni, quando anticipare, quando aspettare. Non era
curioso di sapere che abbiamo genitori (non i miei per fortuna) che da quando abbiamo tre anni ci
gridano oscenità dalla rete dei campi di pozzolana, insultano gli arbitri, ci
seguono a Montelanico, a Vicovaro, a Tor Tre Teste. Non era curioso di sapere
che il calcio per noi è vita? Un tratto del nostro codice genetico, un filtro
attraverso cui guardiamo il mondo? No, non era curioso. Lui sapeva tutto, e me
lo spiegava... Ecco, no, Cuba ha messo in piedi una settore tecnico per gestire
questo fenomeno che, usando un eufemismo, potremmo definire non all'altezza. Mi
raccontano di vicende esilaranti. Di "intuizioni tattiche", diciamo,
creative. Riunioni di aggiornamento in cui vengono proposti testi che un
italiano di terza categoria ha letto, riletto e superato dal 1970. Uno
spettatore qualunque di uno stadio italiano potrebbe tenere qui classi
magistrali sul calcio. Non è una battuta. L'anno passato mi sembra che il
campionato lo abbia vinto a mani basse Santiago e solo perché era allenato da
un italiano qualunque di cui non so il nome. Immagino abbia
sistemato due o tre cose, messo giocatori nei giusti ruoli, obbligato a passare
la palla e ha vinto lo scudetto. Ecco, non sapere non è una colpa. Io per
esempio non ho mai capito il baseball. Se ne sentissi la necessità andrei da un
cubano e mi metterei in ascolto. Muto in ascolto. Riguardo al calcio auguro a
Cuba di fare lo stesso. Uscire dalla dittatura del "si no llego me
paso". Io chiamerei un team di una trentina di allenatori di prima e
seconda categoria italiana e li metterei a lavorare qui. A fare scuola calcio.
A insegnare il calcio ai bambini e agli adulti. In pochi anni il calcio cubano
decollerebbe, ne sono sicuro.
Nel
frattempo io ogni tanto mi dedico ad una delle cose più serie che so fare: mi
attacco alle reti dei campetti di Playa, prendo nota di tutto, soffoco la
voglia di gridare qualcosa al terzino che non torna mai, di elogiare il taglio
di una punta. Io che mi vanto con gli amici di aver scoperto Ibrahimovich,
Verratti, Arsavin, Quintero (in realtà è stato il mio fallimento, ero sicuro che sarebbe
diventato più forte di Messi, l'hanno preso in Portogallo e poi è scomparso.
Qualcuno ha notizie di Quintero?), prima o poi lo scoprirò anche qui il
talento. Ne sono sicuro. È una cosa seria. Il calcio. La cosa più seria che
c'è.
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