Il bello all'Avana cambia. Da tempo si girava intorno a
questo progetto e non si trovava mai una
forma convincente. Un paio d'anni fa ci siamo andati molto vicino. Insieme ad
una mezza dozzina di amici abbiamo pensato alla maniera di farlo diventare il
fratello maggiore di quello che era. Riunioni, idee, discussioni infuocate. Poi
non se ne è fatto niente per un pelo.
Però ha continuato ad essere
quell'incostante barometro del tempo che fa all'Avana. Incostante. Personale.
Un continuo punto di vista. E in questi anni è andato macinando consensi. O no,
mi correggo: consensi non lo so. Lettori. Quelli sì. Forse la curiosità o forse
il gusto, neanche me lo domando. Ma certi post hanno sfiorato i 4000 lettori,
altri, quelli meno fortunati e forse meno riusciti, sempre alcune centinaia. Un
trend (come dicono quelli che si prendono sul serio) in continua crescita,
soprattutto in questi ultimi tempi che sto dando una certa cadenza ai miei
pezzi. Doveva cambiare, crescere, evolversi.
L'immediatezza e, forse, la sfrontatezza della sua fondazione cominciavano a
stare stretti, a limitare gli spazi di crescita di questo spazio. Sentivo ogni
giorno di più che era un blog che doveva uscire dalla totale identificazione
con lo scrivente e reggersi su più gambe per correre. Ma non tutte le gambe
sono uguali. Mi piaceva che continuasse a collocarsi di traverso rispetto a
tutto quello che c'era già, in una posizione competente e consapevole.
Competente nel senso di cercare contributi di persone che conoscessero davvero
L'Avana. Che ci vivessero da anni e che avessero sfrondato, quindi, le prime
impressioni e fossero andati oltre. È pieno di narratori della domenica e
questo blog sapeva benissimo che non si sarebbe mai accodato, in nessun momento
della sua vita, a questa fila di pane scadente fatto di immagini stereotipate,
di luoghi comuni, di abbagli. E poi consapevole. Già perché era necessario che
chiunque fosse inserito nell'organico avesse cose da dire e sapesse dirle. Il
numero dei papabili, perciò, si riduceva parecchio. Rimando a un mio articolo
recente riguardo gli "Italiani a Cuba" per capire come la penso, e comunque, di
artisti qui ne ho visti passare ben pochi. Insomma, non è stato facile. E poi
doveva essere italiano. Se l'aspirazione era quella di costruire un punto di
riferimento per gli italiani che amano questa città, allora continuo a
considerare indispensabile che sia scritto e pensato da italiani. Solo noi
conosciamo le nostre corde, le nostre virtù e le nostre vergogne. Come madri
pietose che diventano suocere sappiamo solo noi quello che vogliono i nostri
figli, come si cucina la melanzana alla parmigiana e come si stirano le loro
camicie. Perciò è arrivato Emanuele. Emanuele Mozzetti per l'esattezza. Prima
di tutto un amico con cui condivido chiacchiere, birre, passioni (la seconda è
la Roma) e amori. Quello per Cuba prima di tutto. Per la Cuba meno banale, più
vera, più ricca, più sorprendente. E poi un artista. Un artista davvero. Che
etichetto in questo modo non per amicizia. In questo senso non regalo niente a
nessuno perché sarebbe un regalo stupido. Un artista della fotografia che mi ha
emozionato sin dal primo momento in cui ho visto i suoi lavori. Poi ho fatto il
freddo perché non si montasse la testa... Uno di quelli che ti fanno cambiare
gli occhi su un oggetto visto mille volte. Che ti ricostruiscono interi scenari
e con cui è sempre bello confrontare le proprie allucinazioni.
Di immagini Cuba ne ha fin troppe. Fare buone foto a Cuba
è un gioco da ragazzi. Ne discutiamo spesso. Nei miei archivi ho anch'io un
paio di foto buone scattate qui ed è tutto dire. È un fondale continuamente
montato, devi solo fare clic. Oddio, ho visto mostre imbarazzanti su questa
città che sembravano il prodotto di un collettivo di bambini del circulo infantil. In ogni modo, a parte casi umani, questa facilità rende
ancor più difficile il lavoro di un artista. Se non vuoi cadere nell'immagine
del solito almendron che sfreccia, nella faccia della vecchia col sigaro o
nelle evoluzioni dell'immancabile negro col ritmo nel sangue, devi saper
scavare e conoscere quello che c'è sotto la pelle di questa città. Ed Emanuele
ci riesce. Perché è un intellettuale e si posiziona sempre con la mente accesa
di fronte alla realtà. La pensa e pensando la immagina. Guardando le sue foto mi viene alla mente,
quasi in automatico, una delle frasi-tormentone della mia vita (usata da
Fellini ma attribuita a Leopardi): niente si sa, tutto s'immagina.
Con Emanuele non abbiamo nessun accordo o piano di
lavoro. Siamo cercatori sufficientemente solitari e anarchici (diciamolo a
bassa voce) per imbrigliarci in qualche modo. È stato sufficiente dire: una
cosa a settimana, ce la fai? Penso di sì. Ci accordiamo sul tema? Boh, anche
no. A
volte sì, ma a volte. Con una linea comune? No, direi di no. Magari su un certo
argomento la vediamo in modo totalmente differente e, bene così. Sticazzi.
Cerchiamo di dare chiavi di lettura diverse di questa città. Ce la facciamo?
Credo di sì, a volte di più, altre di meno.
Ok, insomma, tutta questa menata per dire che il bello
all'Avana cresce. Io manterrò il mio impegno settimanale scrivendo ed Emanuele
lo farà pubblicando le sue visioni.
Abbiamo un'idea di dove vogliamo arrivare ma questo si capirà piano
piano, non c'è fretta.
Non mi resta che dire quello che funziona in certi casi:
buon proseguimento, amici.
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