lunedì 5 febbraio 2018

La razza



di Alessandro Zarlatti
Questa settimana, preso dai preparativi del mio prossimo viaggio a Roma, sono stato un po' in crisi d'ispirazione riguardo al blog. Avevo diversi temi in agenda ma nessuno che mi rapisse in modo decisivo. Poi, ieri, inaspettatamente, è arrivato un demente (i dementi arrivano sempre senza avvisare) e magicamente ho trovato il tema.
Il demente è ovviamente quel tizio, Traini mi pare che si chiami, il quale, assediato dagli immigrati (?) e giunto al limite della sopportazione, invece di tatuarsi un'altra croce celtica, magari questa volta su un testicolo per sublimare nel dolore la frustrazione, invece di andare al circolo (?) di Casapound ad esprimere lucidamente in mezzo al fior fiore degli esegeti di Ezra che "li immigrati abbasta, perché ir sangue italiano si è stancato, perché toglieno il lavoro a noi patriotti, perché strupreno le nostre donne (?), perché li negri puzzeno, che c'hai dù euri?", ha pensato bene di aggredire dei poveri disgraziati. Purtroppo un intero pianeta è giunto al limite della sopportazione per gente come 'sto scemo. Il problema è che non sappiamo dove mettercelo, dove sputarlo uno così. Problema che si moltiplica perché sono molti come lui, forse la maggioranza degli italiani tra prime linee e fiancheggiatori, e diventa un rebus di difficile soluzione. Come è noto il fascismo, così come il razzismo che ne è conseguenza pratica, è un disagio psicologico. Trattarlo come un'idea politica, come un ideale, è un errore che ormai in pochi fanno. Sarebbe come trattare la pedofilia come una preferenza sessuale. No, sono disturbi psichici. Il razzismo è una patologia anche parecchio banale. Lo psicologo meno ispirato potrebbe spiegare in cinque minuti che un atteggiamento di questo tipo verso la vita trova le sue radici nella prima infanzia, nelle donne che non ti filano, nelle persone che non ti ascoltano perché dici cose poco interessanti, in un senso di inferiorità devastante, in qualche trauma a questo livello, in quella cocente consapevolezza di essere, sotto sotto, niente. È un horror vacui da cui l'ometto che ne è vittima esce, si fa per dire, con un colpo di reni tutto interiore, autistico: si autoproclama superiore per ragioni poco verificabili, di sangue, di colore della pelle, di investitura divina, di terra dove è nato, e così, poveretto, sopravvive. Costruisce un'intera impalcatura di vita su queste fregnacce semplicemente perché, mancando quelle, lui non sarebbe niente. Viene da sé che con certa gente non ci può essere dibattito politico ma solo assistenza, carità. Sarebbe come chiacchierare di conquiste con Hannibal Lecter. No, prima ti curi e poi magari, se ne ho voglia, parliamo. Non parlo con te di sistemi migliori o peggiori per amministrare la cosa pubblica ma ti do soltanto qualche buon numero di specialisti che ti possano aiutare. Perché tu non stai qui per quello, non stai qui per trovare la soluzione alle sfide di una società complessa ma è come se con i tuoi atti pronunciassi con tono crescente un "Io esisto! Mi sentite? Esisto! Qualcuno mi caghi!". E faresti di tutto per uscire da quell'anonimato nel quale sei infognato. Capriole, volteggi ai trapezi, sparatorie. Una sfida continua a questa autorità che giganteggia nella tua mente (la gente sana e normale) per fare almeno in modo che ti noti e che ti sgridi. In cinofilia si sa bene che dal padrone un cane preferisce un calcio all'indifferenza. Il calcio gli fa almeno sentire di esistere. Un cretino così raggiunge la pienezza della sua esistenza proprio in questo momento. Proprio oggi. Esiste. Mentre gli dedicano trasmissioni, articoli, analisi. Meglio esistere come un demente che non essere niente.
Sì, ma tutto questo cosa c'entra con Cuba? Niente, forse, oppure molto. Perché anche qui si vive un razzismo strisciante che la Rivoluzione non è riuscita a curare per intero. Ci ha provato in ogni modo e in gran parte è riuscita a saldare nella mente dei cubani un sentimento di uguaglianza che è incondizionatamente bello. Ma resta il razzismo come malattia in molti. Lo senti nelle frasi dette a mezza bocca, nelle occhiate, nel gesto che fanno i bianchi sfregandosi le dita sull'avambraccio per dire "negro". Quello che si nutre esattamente con le stesse radici, nelle stesse falde in cui si abbevera il razzismo nostrano. La malattia. Un peccato d'ingenuità. La Rivoluzione credeva che bastassero la cultura, la ragione e l'educazione per distruggere quell'erba cattiva senza capire per intero quanto fosse un disturbo da curare, come una fobia o un complesso. E purtroppo è una malattia sempre latente. La tentazione di una scorciatoia poco faticosa. Quella che si rafforza proprio quando vacillano le sicurezze e l'autostima personali. Bisogna capirne il movimento, vederlo e rivederlo tante volte dentro di sé. Come, quando nasce. Dove arriva. È uno di quegli atteggiamenti umani brutti da qualunque angolazione li si osservi. Si pronuncia una frase razzista, un aggettivo soltanto, un'occhiata, ed è un colpo all'umanità intera. Un'ennesima pennellata nera, sbagliata, sull'opera d'arte che non riusciamo a mettere in piedi.

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