Scritto di Alessandro Zarlatti
Sono
sull'aereo di ritorno. Sfiancato dalla sveglia e dal conto di energie che mi
presenta lo spirito santo dopo due settimane così.
Conto in rosso. Come sempre. Sono sul solito aereo della Blue Panorama e mi
domando se abbia un senso su questo pianeta la Blue Panorama: personale
sgarbato, facce che esprimono in coro lo stesso concetto: ti facciamo un
favore, fosse per noi faremmo i becchini e comunque, crepa!
In ogni
modo, l'ho scelta io questa splendida compagnia e quindi prego solo che arrivi
dove deve arrivare e amen. Ho tempo. Penso al mio nuovo libro. Lo guardo. È la prima volta che lo faccio con attenzione. In queste due
settimane in Italia l'ho dato per scontato. L'ho presentato. L'ho notato di
sfuggita lì sul tavolo, ma l'ho toccato
poco. È il mio terzo libro e sento di
aver acquisito una certa automaticità, un approccio di routine, mi
spiego? Una specie di perdita della sorpresa. So presentarlo. So rispondere
alle domande. So mettere le firme e scegliere le dediche. So dare la mano. Ma
penso al primo. Penso a quell'attesa. Penso a quel giro di boa che avevo
aspettato una vita intera, la pubblicazione, quella parola che col desiderio
frustrato che montava diventava, anno dopo anno, una parola più sconcia, più lontana, più astratta. Ricordo le prime presentazioni. Ricordo i primi
sguardi. Quella parola ingombrante che tracimava dalla mia bocca come una
patata rovente: scrittore. La sputavo lì, per terra, come un dente
malato e scappavo lontano. Oggi ritorno a casa e mi domando cosa sia rimasto, in
quale punto della mia mente io senta ancora quella vibrazione di fondo. Cosa la
spegne. Cosa la riceve. Dove voglio fuggire. Da cosa. Ripasso il mio nuovo
libro fra le mani e immediatamente mi accorgo di costruire nuovi scenari,
strategie, mercato, efficacia, progetti. Sento di non essere là. Temo che tutto questo somigli terribilmente alla routine
da cui fuggo, da questo mercanteggiare se stessi, il proprio doppio, quella
specie di baraccone di me stesso che sa stringere mani, mettere firme. Mi dico
che c'è di peggio. Che io almeno
cerco sempre di non perdermi, di essere me stesso. Me stesso. Mi sembra il
concetto più assurdo del mondo visto da
qui. C'è sempre quella lieve recita,
quel recitare la persona-che-rimane-se-stessa che mi atterrisce. E allora cos'altro?
Cosa cerchi ancora? Più vanità? Un applauso ancora? Un "bravo davvero"? Soldi? No, non mi sembra. Mi piacciono gli
applausi ma non scrivo per quelli. Mi piacciono i soldi ma non riescono ad
essere una motivazione. E allora? Ripasso fra le mani il libro. Osservo la
copertina, l'immagine, mi piace. Guardo la mia foto sopra alla biografia e
sorrido: un po' meno vecchio, congelato di profilo in chissà quale concetto. Congelato. Mi soffermo per secondi su
questa idea. Certo, la scrittura, questa debole protesi della vita che fugge.
Questo sopravvivenza imposta a se stessi ed al mondo. È quello? In parte. Quella è
una delle radici dell'arte in generale. Quell'esisto, sono esistito, qualcuno
può ricordarmi? Apro il libro. Ho
tempo. Comincio a leggere. Penso di leggere una decina di righe. Massimo una
paginetta. E invece mi sveglio dopo molti minuti. La mia scrittura. Ciò che mi piace di me. Beh, non solo, ma la mia scrittura è l'unico regalo che posso fare agli altri. È questo. Certi passaggi. Il frutto di un tormento di
decenni. Identificazioni, cambi, virate, paralisi, delusioni, tentativi,
migliaia di ore leggendo, pensando, traducendo in parole, parlando al vento, a
donne inesistenti, a fantasmi, alla vita difficile, dando sul foglio le
risposte che non so dare, le visioni che non so condividere, gli umori del mio
universo intimo. La scrittura. Proprio lei. La ritrovo sempre là. Tornando a Cuba. Tornando con mia moglie alla nostra casa
disordinata, al nostro cane con la gamba storta, alla mattonella staccata
dell'ingresso, ai vicini, agli studenti. Mi sembra di tornare al mio strano
laboratorio. In camera. Al riparo da quasi tutto. A leggere scrittori
incredibili, a scrivere una parola dietro l'altra in mezzo al caos della cucina
e dei piatti non lavati, alle visite a sorpresa, al flusso debole del
rubinetto. Solo lei vale la pena. Solo lei. Non ci fossero queste parole, non
ci fosse questa esistenza imperfetta in cui trovo nomi e storie da scrivere,
niente varrebbe la pena. Neanche uno degli applausi, neanche una delle pause
che so fare, neanche un euro dei libri venduti. La scrittura. Torno all'Avana
con ogni mare, con qualunque durezza negli occhi del vicino di posto, con
qualunque sgarbo della hostess, con qualunque brutto pensiero sugli anni che
passano. Il senso delle mie cose mi aspetta sempre lontano da tutto. Al riparo
da tutto. La mia nuova, splendida, pagina bianca. L'unica cosa che so fare:
riempirla di parole.
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