Scritto di Alessandro Zarlatti
Una volta
mi trovavo all'aeroporto Jose Martì e stavo aspettando l'aereo
dall'Italia. Credo arrivasse mia madre. Non ricordo più. Sì, forse mia madre. Stavo lì, appena fuori dagli arrivi internazionali fumando una
sigaretta e pensavo, questo me lo ricordo bene, che tutto stava andando di
meraviglia. Così, il pensiero e la sensazione
piena che tutto andasse nella direzione della tua volontà. Non succede sempre. A dire il vero, a me quasi mai.
Succede spesso ai ricchi, ai fortunati, agli idioti. Non a me.
Eppure sono
sufficientemente idiota. Quella netta sensazione, quel netto bilancio che ti fa
dire: se tutto si fermasse così non farebbe un soldo di
danno. Bene, non avevo ancora finito la sigaretta e dal caos dell'esistenza è apparsa una forma elegantissima di risposta: una vacca.
Forse non proprio una vacca ma più piccola, una vitella (esiste
la vitella femmina, vero?) ha iniziato a correre fra la gente. Una vacca
impazzita, spaventata, senza meta ha cominciato ad attraversare quel non-luogo,
quei labirinti squadrati fra i posacenere a colonna, le panchine, le valigie,
persone immobilizzate, grida, taxi. Tutti l'abbiamo guardata in questa
tormentata fuga da tutto, impreparati, come si può
essere impreparati di fronte all'assurdo, incapaci di dare risposte agli
eventi. Solo sorpresa. Un po' di paura ma poca. Lei correva come fosse
inseguita da un predatore invisibile, consegnata in un istante al nostro
pianeta, quello che abitualmente la contempla solo divisa in bistecche e a
media cottura, non correndo senza controllo agli imbarchi internazionali. Un
minuto, forse qualcosa di meno. Congelato in quella apparizione. Ricordo di
averla letta come una risposta. Così nascono le religioni. Come
una sberla sulla nuca del prete delle elementari. Pensavi di averla capita la
faccenda, eh? Pensavi di aver trovato il verso della vita, non è vero? Eccoti qui una vacca impazzita all'aeroporto, così torni tra gli umani, la smetti di fare il coglione. Questo
per dire cosa? Che a 51 anni sto ancora a Cuba per questo genere di cose. 51 li
compio oggi 26 di marzo (domani mentre scrivo e porta una sfortuna terrificante anticipare
ma tant'è...) ma sono queste irruzioni
violente dell'assurdo, quelle che questo paese ancora permette, che mi tengono
attaccato agli scogli di questa isola. Fuori da Cuba è rimasta soltanto la morte a svegliarci. Non abbiamo ancora
asfaltato il suo portato di casualità e di fuori controllo. Stiamo
lavorandoci ma ancora ci sorprende. Il resto lo abbiamo disintegrato. Lo
abbiamo neutralizzato o lo abbiamo fatto scendere alla categoria di fastidio.
La scomodità, la puzza, la fame, i negri,
i froci, l'altro, gli altri, li abbiamo più o meno imbrigliati. La vita
senza sorprese. Una vita che qualsiasi narratore mediocre saprebbe raccontare
dall'inizio alla fine. Qui no. Qui no, per fortuna. Quella vacca come metafora
delle cose inaspettate. Quelle che ti costruiscono dentro i semi della
saggezza. Perché la saggezza, quella che ho
incrociato qualche volta in questi cinquantun'anni di cammino, ha un forte
sapore di sorriso, di poca identificazione, di serena distanza dalle cose
troppo serie. E qui a Cuba la saggezza sembra nutrirsi della fragilità delle case che crollano quando passa un ciclone. Delle
relazioni che si sfasciano perché la vita è fatta così, perché le cose finiscono ed è meglio sorridergli che farle
diventare il nostro tormento. La saggezza si nutre dei cavi non a norma dei
palazzi del centro, della carne di maiale esposta sui banconi dei mercati ben
lontana da un nevrotico ciclo del freddo per noi, invece, sacro. Sto a Cuba
perché a volte le strade si
riempiono di una puzza violenta. Merda, ma non soltanto. Forse una fogna che
non è più neanche se stessa, ma è
la sua degenerazione, il suo inferno. Quello che non finisce sotto il tappeto.
Quello che non abbiamo asfaltato nel nostro discutibile modello asettico del
mondo. Sto a Cuba per partecipare al rito dell'indifferenza delle commesse dei
negozi. Per respirare l'odore del loro distacco, dei loro sgarbi. Per pulirmi
gli occhi, per disintossicarmi dai sorrisi professionali di milioni di sconosciute.
Quelle che ti investono di contrazioni muscolari del viso che chiamano sorrisi,
appunto, e ti armano una festicciola per venderti un contratto di Wind. Sto a
Cuba per quello. Perché c'è ancora spazio per germi non addomesticati, per tempeste,
per sentimenti non codificati dal prete o dal sessuologo di turno, perché la gente cade in amore (l'unica espressione bella della
lingua inglese - fall in love - che infatti rubo) e ci crede ancora, davvero,
costi quello che costi, fino alla fine, senza riserve, senza paracadute. Oggi
compio 51 anni e mi piace pensare alla vita, alla vita che mi piace, come ad
un'attesa all'aeroporto, fumando una sigaretta, in un pomeriggio tiepido di
fine marzo. Dove a un certo punto passa una vacca impazzita. Quasi te la aspetti.
Ti sfreccia davanti e ti ricorda che tutto può
succedere. La morte, certo, ma anche cose più
dolci, come regali che piovono dal cielo. E tu impari poco a poco ad
accoglierli tutti quei regali, senza fare selezioni, con lo stesso sorriso.
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