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domenica 25 marzo 2018

Una vacca all'Avana


Scritto di Alessandro Zarlatti

Una volta mi trovavo all'aeroporto Jose Martì e stavo aspettando l'aereo dall'Italia. Credo arrivasse mia madre. Non ricordo più. Sì, forse mia madre. Stavo lì, appena fuori dagli arrivi internazionali fumando una sigaretta e pensavo, questo me lo ricordo bene, che tutto stava andando di meraviglia. Così, il pensiero e la sensazione piena che tutto andasse nella direzione della tua volontà. Non succede sempre. A dire il vero, a me quasi mai. Succede spesso ai ricchi, ai fortunati, agli idioti. Non a me.
Eppure sono sufficientemente idiota. Quella netta sensazione, quel netto bilancio che ti fa dire: se tutto si fermasse così non farebbe un soldo di danno. Bene, non avevo ancora finito la sigaretta e dal caos dell'esistenza è apparsa una forma elegantissima di risposta: una vacca. Forse non proprio una vacca ma più piccola, una vitella (esiste la vitella femmina, vero?) ha iniziato a correre fra la gente. Una vacca impazzita, spaventata, senza meta ha cominciato ad attraversare quel non-luogo, quei labirinti squadrati fra i posacenere a colonna, le panchine, le valigie, persone immobilizzate, grida, taxi. Tutti l'abbiamo guardata in questa tormentata fuga da tutto, impreparati, come si può essere impreparati di fronte all'assurdo, incapaci di dare risposte agli eventi. Solo sorpresa. Un po' di paura ma poca. Lei correva come fosse inseguita da un predatore invisibile, consegnata in un istante al nostro pianeta, quello che abitualmente la contempla solo divisa in bistecche e a media cottura, non correndo senza controllo agli imbarchi internazionali. Un minuto, forse qualcosa di meno. Congelato in quella apparizione. Ricordo di averla letta come una risposta. Così nascono le religioni. Come una sberla sulla nuca del prete delle elementari. Pensavi di averla capita la faccenda, eh? Pensavi di aver trovato il verso della vita, non è vero? Eccoti qui una vacca impazzita all'aeroporto, così torni tra gli umani, la smetti di fare il coglione. Questo per dire cosa? Che a 51 anni sto ancora a Cuba per questo genere di cose. 51 li compio oggi 26 di marzo (domani mentre scrivo e porta una sfortuna terrificante anticipare ma tant'è...) ma sono queste irruzioni violente dell'assurdo, quelle che questo paese ancora permette, che mi tengono attaccato agli scogli di questa isola. Fuori da Cuba è rimasta soltanto la morte a svegliarci. Non abbiamo ancora asfaltato il suo portato di casualità e di fuori controllo. Stiamo lavorandoci ma ancora ci sorprende. Il resto lo abbiamo disintegrato. Lo abbiamo neutralizzato o lo abbiamo fatto scendere alla categoria di fastidio. La scomodità, la puzza, la fame, i negri, i froci, l'altro, gli altri, li abbiamo più o meno imbrigliati. La vita senza sorprese. Una vita che qualsiasi narratore mediocre saprebbe raccontare dall'inizio alla fine. Qui no. Qui no, per fortuna. Quella vacca come metafora delle cose inaspettate. Quelle che ti costruiscono dentro i semi della saggezza. Perché la saggezza, quella che ho incrociato qualche volta in questi cinquantun'anni di cammino, ha un forte sapore di sorriso, di poca identificazione, di serena distanza dalle cose troppo serie. E qui a Cuba la saggezza sembra nutrirsi della fragilità delle case che crollano quando passa un ciclone. Delle relazioni che si sfasciano perché la vita è fatta così, perché le cose finiscono ed è meglio sorridergli che farle diventare il nostro tormento. La saggezza si nutre dei cavi non a norma dei palazzi del centro, della carne di maiale esposta sui banconi dei mercati ben lontana da un nevrotico ciclo del freddo per noi, invece, sacro. Sto a Cuba perché a volte le strade si riempiono di una puzza violenta. Merda, ma non soltanto. Forse una fogna che non è più neanche se stessa, ma è la sua degenerazione, il suo inferno. Quello che non finisce sotto il tappeto. Quello che non abbiamo asfaltato nel nostro discutibile modello asettico del mondo. Sto a Cuba per partecipare al rito dell'indifferenza delle commesse dei negozi. Per respirare l'odore del loro distacco, dei loro sgarbi. Per pulirmi gli occhi, per disintossicarmi dai sorrisi professionali di milioni di sconosciute. Quelle che ti investono di contrazioni muscolari del viso che chiamano sorrisi, appunto, e ti armano una festicciola per venderti un contratto di Wind. Sto a Cuba per quello. Perché c'è ancora spazio per germi non addomesticati, per tempeste, per sentimenti non codificati dal prete o dal sessuologo di turno, perché la gente cade in amore (l'unica espressione bella della lingua inglese - fall in love - che infatti rubo) e ci crede ancora, davvero, costi quello che costi, fino alla fine, senza riserve, senza paracadute. Oggi compio 51 anni e mi piace pensare alla vita, alla vita che mi piace, come ad un'attesa all'aeroporto, fumando una sigaretta, in un pomeriggio tiepido di fine marzo. Dove a un certo punto passa una vacca impazzita. Quasi te la aspetti. Ti sfreccia davanti e ti ricorda che tutto può succedere. La morte, certo, ma anche cose più dolci, come regali che piovono dal cielo. E tu impari poco a poco ad accoglierli tutti quei regali, senza fare selezioni, con lo stesso sorriso.

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