Dopo
una tragedia come quella di venerdì scorso credo che l'unico atteggiamento
decente da tenere sia quello del silenzio e del rispetto. Tutto il resto è
orrendo, senza nessuna gradazione del disgusto. La morte è una brutta storia e
in aereo, suppongo, deve essere ancora più mostruosa. Punto. Non mi interessa
perciò parlare di responsabili, di colpe e cose così.
Esistono persone che lo
fanno per lavoro, esistono giornalisti, pochi ma esistono, ed io sono
fieramente un non-giornalista. Infatti non pensavo di scrivere nemmeno una
riga su questo blog. Invece, poi, nei giorni successivi, hanno cominciato a girare qui
all'Avana alcuni video amatoriali realizzati da persone accorse sul luogo
dell'incidente. Li ho guardati. Alcuni solo panoramici e in essi si vedono
immagini dei tronconi fumanti dell'aereo, gente che corre, che grida,
poliziotti che cercano di fare ordine, facce spaventate. Altri video erano
invece molto più difficili. Credo che certe immagini mi resteranno per sempre
negli occhi. Inutile descriverli. La realtà muta non soltanto della morte ma di
un incidente che sembra qualcosa di più della morte, un gioco sadico contro la
dignità di chi sta perdendo la vita. Ho interrotto il video più assurdo prima
che finisse. Ho respirato. Ho pensato alla guerra. A quegli stronzi che parlano
di bilanci di guerra, di numeri, di nomignoli suggestivi affibbiati ad
operazioni belliche e che si guardano bene dal mostrare le immagini reali degli
effetti di quelle bombe intelligenti che sganciano, quelle che lette su un
giornale, viste da lontano in una schermata di dati sembrano quasi simpatiche,
dei mortaretti di capodanno. I corpi dilaniati sono una cosa mostruosa. Sono la
fine della ragione. Sono l'inizio della follia. Sono questo mistero mostruoso
che ci taciamo quotidianamente per non impazzire. L'inaccettabilità del dolore,
della sofferenza, della morte. Proprio in quel momento avrei avuto bisogno
delle parole più illuminate del Buddha. Com'era? Perché ci siamo? Cos'era
l'essere? E il nulla? Le ho dimenticate. Sono corso a rileggerle a casa,
leccandomi le mie di ferite, cercando di dare un senso a quelle immagini che mi
bruciavano dentro, incandescenti. Il senso, già... Mi sono fermato a pensare
ancora. C'era qualcosa di così evidente in quei filmati che avevo lasciato passare, sovrastato
com'ero da quei contenuti tanto violenti. Bene, era la gente: ogni ripresa
sorprendeva decine di altre persone che col loro cellulare riprendevano quello
che avevano di fronte. Ok, un fenomeno ormai universale. Questo istinto quasi
automatico a registrare quello che attraversa la nostra vita. Da un lato c'è un
istinto da reporter, ma non basta. Non basta quell'impulso interiore
all'io-c'ero. C'è qualcosa di più. Me lo sono domandato. Cosa? Una risposta
comincia proprio da quell'automatismo nella risposta, io credo. Succede
qualcosa e noi automaticamente la registriamo. La cogliamo in quella che
crediamo essere la realtà e la mettiamo a disposizione degli altri. Non
raccontiamo più. Non interpretiamo. Non la trasferiamo più alla nostra comunità
in altre parole. La diamo agli altri in quella terrificante versione
unidimensionale, nella sua fisicità e nient'altro. Non c'è più un filtro
religioso, né uno spirituale, né una bugia, né un racconto. Non ci fidiamo più
dei nostri racconti. La morte non diventa più mito, ha smesso di essere lotta
con gli dei, ha perso totalmente quella tessitura in cui abbiamo costruito la
nostra storia di specie, di uomini, di semidei. Non ci fidiamo più. Stiamo
costruendo questa nuova immagine di noi stessi conquistati dal meccanicismo e
dalle macchine e questa immagine assurda di noi stessi prevede che esista
veramente la realtà, che esistano oggetti, esseri separati, continuità. Ha
smesso di risuonare in noi una frase come quella di Leopardi che oggi farebbe
ridere i polli: niente si sa, tutto si immagina. No, siamo fatti sempre più di
quella che chiamiamo realtà, non sappiamo sillabare altro, anche se alla fine
non sappiamo che farcene di tutta questa realtà. Immagini da passare ad altri
che le passeranno ad altri che le passeranno ad altri. Non abbiamo più chiavi
interpretative di nessun tipo per farne una metafora, per dare pane buono,
parole buone ai nostri figli ogni volta che toccano il vuoto. A pensarci bene
sarebbe tutto fisiologico, forse sarebbe giustamente questo il nostro destino
futuro se non fossimo ancora dei sognatori. Dico sognatori nel senso più
materiale del termine: se non dormissimo ogni notte e sognassimo. Il sogno è
una metafora, è un racconto, è un mito che ci raccontiamo ogni notte per non
morire sotto il peso della mancanza di senso di tutto. È una favola che mette
in fila eventi, li mette in prospettiva, li indirizza. Siamo ancora lì, che ci
piaccia o no, con la necessità di costruire intorno all'assurdità della vita le
nostre storie. Siano esse inverosimili traiettorie di divinità misericordiose,
filosofie o idee di se stessi. È quando vedo immagini così terrificanti, quando
vedo quel mondo sospeso davanti ad uno strapiombo della ragione come
l'incidente aereo di venerdì che sento forte, ancora, in questa epoca, il
primato della letteratura. Di fronte a questa orgia della materia, della
tecnologia, di immagini, di pixel, di apparenza, la necessità vitale della
sostanza, di quel racconto invisibile che ci tiene in vita. Non la sento io, la
vedo implorante quella necessità negli occhi di tutti questi reporter che hanno
perso la voce. Di quelli che registrano tutto incapaci di commentarlo quel
tutto, incapaci di farne, faticosamente, un racconto pieno di cuore, pieno di
bugie, pieno di eroi, pieno di amori, un regalo ad uso e consumo della propria
comunità, perché la vita non faccia male, in poche parole un'opera d'arte.
Scritto di Alessandro Zarlatti
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