Sono
in vacanza. Sembra assurdo ma dopo tanti anni mi prendo una vacanza vera e
propria qui a Cuba: casa prenotata, ciabatte, mare, libri, sole. Sì, in passato
qualche scappata a Varadero, qualche mezza giornata a Playa del este, però poco
altro. Alla fine viaggiare mi interessa il giusto. Ormai da tanto tempo credo
di aver capito che il viaggio non sia la chiave per conoscere cose nuove e
diverse da te. Per quello servono le persone. Il vero viaggio verso l'ignoto
sono loro.
Puoi rimanere con le chiappe nel tuo soggiorno ed esplorare voragini
incredibili, panorami impensabili nei ricordi di un altro essere umano, nei
suoi racconti, nei suoi silenzi. Un po' patetico ma lo penso davvero. I
viaggiatori compulsivi mi sembrano, in genere, persone con una modesta
immaginazione o con una paura fottuta di dare un'occhiata in quello che gli si
muove dentro. Non sempre, è chiaro. Comunque abbiamo scelto Playa Larga, nella
Cienaga de Zapata, molto vicino a Playa Giron, a sud di Matanzas. Le spiagge
sono belle, un po' la versione popolare di Varadero. Un po' una sfida al tuo
istinto a ritagliarti spazi esclusivi e isolati. A prendere le distanze. A
distinguerti. È il bello di questo sistema. Monti la tua postazione in una
spiaggetta incontaminata e dopo dieci minuti arriva un bus sventrato degli anni
50 con una cinquantina di lavoratori che ti si sdraiano accanto. Un po' ti
irrita, un pò ti piace. Sei abbastanza lontano dal classismo degli stabilimenti
delle nostre riviere. Quello esclusivo, dove un lettino stagionale costa come
un attico a Piazza di Spagna, dove il troione dell'ombrellone accanto straparla
alternativamente della situazione economica del paese e delle dimensioni
stimate del pisello del tronista del momento. Meglio qui. Le donne preferiscono
farsi il bagno con la maglietta. Mi dicono che soprattutto la gente che non è
delle grandi città fa attenzione al sole. Nessuna esibizione. Nessun lifting,
intere aree botulino-free. Da non credere! Gli uomini esibiscono panze come
fosse la sagra dell'anguria, i bambini si rincorrono in eterno, fanno bagni
lunghissimi mentre i padri si spengono sotto a una palma, annichiliti dal rum e
dalla danza interiore dei grassi polinsaturi. C'è solo una cosa che estirperei
con il napalm, una soltanto, senza pietà: le casse musicali portatili. È una
malattia. Colpisce i giovanotti cubani tra i quattordici e i ventinove anni.
C'è chi le porta in braccio, chi in spalla, chi perfino su una specie di
carrello della spesa. L'importante è averle. E ficcarci dentro la musica più
brutta dell'universo: trap, reggaeton, ranchera messicana. E metterla ad alto
volume dovunque. Perchè? Perchè? Cristo santo, perchè? La mia diventa una
domanda religiosa, una di quelle che si rivolgono a dio e lui non risponde.
Perchè, dio onnipotente, uno arriva sotto ad una palma, davanti ad un mare
turchese, di fronte ad un orizzonte intatto, su una sabbia fatta di depositi
millenari di coralli, circondato da dozzine di specie faunistiche in
estinzione, in poche parole in questo miracolo della natura, e sente il bisogno
di mettere a volume impossibile una canzone di Bad Bunny? Non so, forse dio ha
risposte sul senso della vita ma non su questo e quindi fa il vago. Comunque
qui nella Cienaga c'è anche mia figlia che le canzoni di Bad Bunny le conosce a
memoria. Anche lei fa la vaga: simula di condividere il mio disappunto e poi la
vedo che segue a mezza bocca la canzone. È venuta solo per qualche giorno. Le
ho messo le cose in chiaro: guarda che papà e Flabia vanno a riposarsi, a
leggere, a dormire, a scrivere, a correre, andiamo in un posto quasi senza
internet, dove il telefono prende poco, dove il massimo dello svago è guardare
la gente che di notte va a caccia di granchi con una lampadina da minatore
sulla fronte. È venuta uguale. Sono contentissimo. Questi quattro giorni fuori
dalle nostre routine ci avvicinano molto. Lei non è pendente ai messaggi in
entrata, ai commenti su Facebook, ai like, alle chiacchiere infuocate con le
amiche; io non sono in preda alla mia allucinazione produttiva, al compimento
del quotidiano labirinto di compiti senza fine. Essere vicini. Il vero viaggio.
Mi riempio di tenerezza di fronte alle sue incertezze sul bikini. Lei che poi
si fa coraggio e si toglie la maglietta e viene a farsi il bagno. Lei che mi
dice che sono bellissimo e mi abbraccia forte perché io lo senta davvero. E poi
lei, che ti racconta degli amori della sue età, di Miriam che già l'ha fatto,
di Claudia che bacia tutti, di Rosita che nessuno la bacia perché è brutta e se
ne sta facendo un tormento. La ascolto. La ascoltiamo. Cerco di dire qualcosa
sull'adolescenza ma è come una pratica difficile lasciata in un cassetto e
dimenticata. È vero, mi ricordo, non si parlava di altro. Dello scopare. Era
un'ossessione. Questo appuntamento fissato in un punto indeterminato del futuro
che diventava gigantesco, una Erinni o un angelo a seconda del giorno. I
racconti degli amici, le fughe di notizie, le bugie: già l'ho fatto. Dici
davvero? Sì, giuro, con Stefania al mare. E com'era? Bello. E a lei è piaciuto?
Sì, tantissimo, ha goduto come una porca... Cazzate. Ormoni. Chiacchiere.
Paura. Parlo con Nina e cerco di sfiammare questa attesa. Gira tutto intorno a
quello. Le dico di non ascoltare troppe chiacchiere. Che non è nessun passaggio
sacro o roba del genere. Che lo faccia senza costruirci troppo sopra, quando le
va, quando si sente a posto. Che non deve essere col ragazzo della vita. Certo,
neanche col figlio di Pacciani, ma che le scopate belle arriveranno dopo, molto
dopo. Che imponga il preservativo, quello sì. Che è un po' come un dente che devi
toglierti e poi giri pagina nella tua vita. Finalmente il tempo diventa sereno
dopo questo uragano collettivo. Una cosa così. Flabia mi corregge. Aggiusta il
tiro laddove sono un po' troppo secco e spietato. Fa bene. Io mi zittisco. Sto
scrivendo un libro sull'adolescenza. Lo preparo da quasi un anno e presto
scriverò la prima parola. Ho costruito con attenzione certosina la storia, i
passaggi, gli snodi, i caratteri. Mi sembra bello. Ora devo solo scriverlo. Nel
frattempo leggo Philip Roth e mi segno una frase importante di un libro che mi
sta piacendo da impazzire. Dice: "la giovinezza è una volta soltanto,
l'immaturità dura per sempre". Sono un tifoso dell'immaturità. Ormai per
me inguaribile benedizione, una venerazione da vecchio ultras. Gli immaturi
sono sempre fuori tempo, ovviamente, mi dico. Mi sento un padre che non sa dare
consigli decenti alla figlia adolescente. O forse sì. Consigli da interpretare.
Come le favole che le raccontavo da bambina prima di dormire che erano sempre
la deviazione di una narrazione sana e decente, roba da servizi sociali. Con
asini che erano sempre napoletani e io mi divertivo a farli parlare come Aldo
Giuffrè; con cani sfasciati, monchi, difettosi, sempre immancabilmente veneti
che io facevo parlare come De Michelis; con cavalli che non ce la facevano a
reggere e allora iniziavano ad andare di corpo e costruivano montagne. Facevano
ridere. Nina rideva. Non si addormentava e rideva mentre io crollavo dal sonno.
Adesso ogni tanto me ne ricorda qualcuna di quelle che creavo sul lettone e mi
dice che sono ricordi dolcissimi. Le dico che erano favole sbagliate, che non
avevano mai una morale edificante, non avevano proprio nessuna morale per la
verità, nessun insegnamento. Lei mi dice che proprio quella era la loro bellezza.
Me lo dice qui. In questo viaggio fra le persone. A Playa Larga che potrebbe
essere dovunque, anche a casa, senza spostarci di un centimetro. Viaggio e la
conosco. Conosco queste sue improvvise saggezze. Penso che mia figlia stia
diventando davvero grande quando dà risposte così, che a breve avrà la sua
razione di belle scopate e di scopate da dimenticare, come tutti, che assisterà
al dispiegarsi di questa assurda esistenza che se sei intelligente non perdi
tempo a cercargli nè il senso nè il fine. Un po' come quelle favole lì. Una
vita costellata di cavalli napoletani che ci fanno ridere, di cani vicentini,
di montagne di merda che ci tolgono i panorami e di amori che fuggono via. E
poi noi a chiederci dove, perché. Fino alla fine.
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