venerdì 17 agosto 2018

Playa larga



Playa Larga
Sono in vacanza. Sembra assurdo ma dopo tanti anni mi prendo una vacanza vera e propria qui a Cuba: casa prenotata, ciabatte, mare, libri, sole. Sì, in passato qualche scappata a Varadero, qualche mezza giornata a Playa del este, però poco altro. Alla fine viaggiare mi interessa il giusto. Ormai da tanto tempo credo di aver capito che il viaggio non sia la chiave per conoscere cose nuove e diverse da te. Per quello servono le persone. Il vero viaggio verso l'ignoto sono loro.
Puoi rimanere con le chiappe nel tuo soggiorno ed esplorare voragini incredibili, panorami impensabili nei ricordi di un altro essere umano, nei suoi racconti, nei suoi silenzi. Un po' patetico ma lo penso davvero. I viaggiatori compulsivi mi sembrano, in genere, persone con una modesta immaginazione o con una paura fottuta di dare un'occhiata in quello che gli si muove dentro. Non sempre, è chiaro. Comunque abbiamo scelto Playa Larga, nella Cienaga de Zapata, molto vicino a Playa Giron, a sud di Matanzas. Le spiagge sono belle, un po' la versione popolare di Varadero. Un po' una sfida al tuo istinto a ritagliarti spazi esclusivi e isolati. A prendere le distanze. A distinguerti. È il bello di questo sistema. Monti la tua postazione in una spiaggetta incontaminata e dopo dieci minuti arriva un bus sventrato degli anni 50 con una cinquantina di lavoratori che ti si sdraiano accanto. Un po' ti irrita, un pò ti piace. Sei abbastanza lontano dal classismo degli stabilimenti delle nostre riviere. Quello esclusivo, dove un lettino stagionale costa come un attico a Piazza di Spagna, dove il troione dell'ombrellone accanto straparla alternativamente della situazione economica del paese e delle dimensioni stimate del pisello del tronista del momento. Meglio qui. Le donne preferiscono farsi il bagno con la maglietta. Mi dicono che soprattutto la gente che non è delle grandi città fa attenzione al sole. Nessuna esibizione. Nessun lifting, intere aree botulino-free. Da non credere! Gli uomini esibiscono panze come fosse la sagra dell'anguria, i bambini si rincorrono in eterno, fanno bagni lunghissimi mentre i padri si spengono sotto a una palma, annichiliti dal rum e dalla danza interiore dei grassi polinsaturi. C'è solo una cosa che estirperei con il napalm, una soltanto, senza pietà: le casse musicali portatili. È una malattia. Colpisce i giovanotti cubani tra i quattordici e i ventinove anni. C'è chi le porta in braccio, chi in spalla, chi perfino su una specie di carrello della spesa. L'importante è averle. E ficcarci dentro la musica più brutta dell'universo: trap, reggaeton, ranchera messicana. E metterla ad alto volume dovunque. Perchè? Perchè? Cristo santo, perchè? La mia diventa una domanda religiosa, una di quelle che si rivolgono a dio e lui non risponde. Perchè, dio onnipotente, uno arriva sotto ad una palma, davanti ad un mare turchese, di fronte ad un orizzonte intatto, su una sabbia fatta di depositi millenari di coralli, circondato da dozzine di specie faunistiche in estinzione, in poche parole in questo miracolo della natura, e sente il bisogno di mettere a volume impossibile una canzone di Bad Bunny? Non so, forse dio ha risposte sul senso della vita ma non su questo e quindi fa il vago. Comunque qui nella Cienaga c'è anche mia figlia che le canzoni di Bad Bunny le conosce a memoria. Anche lei fa la vaga: simula di condividere il mio disappunto e poi la vedo che segue a mezza bocca la canzone. È venuta solo per qualche giorno. Le ho messo le cose in chiaro: guarda che papà e Flabia vanno a riposarsi, a leggere, a dormire, a scrivere, a correre, andiamo in un posto quasi senza internet, dove il telefono prende poco, dove il massimo dello svago è guardare la gente che di notte va a caccia di granchi con una lampadina da minatore sulla fronte. È venuta uguale. Sono contentissimo. Questi quattro giorni fuori dalle nostre routine ci avvicinano molto. Lei non è pendente ai messaggi in entrata, ai commenti su Facebook, ai like, alle chiacchiere infuocate con le amiche; io non sono in preda alla mia allucinazione produttiva, al compimento del quotidiano labirinto di compiti senza fine. Essere vicini. Il vero viaggio. Mi riempio di tenerezza di fronte alle sue incertezze sul bikini. Lei che poi si fa coraggio e si toglie la maglietta e viene a farsi il bagno. Lei che mi dice che sono bellissimo e mi abbraccia forte perché io lo senta davvero. E poi lei, che ti racconta degli amori della sue età, di Miriam che già l'ha fatto, di Claudia che bacia tutti, di Rosita che nessuno la bacia perché è brutta e se ne sta facendo un tormento. La ascolto. La ascoltiamo. Cerco di dire qualcosa sull'adolescenza ma è come una pratica difficile lasciata in un cassetto e dimenticata. È vero, mi ricordo, non si parlava di altro. Dello scopare. Era un'ossessione. Questo appuntamento fissato in un punto indeterminato del futuro che diventava gigantesco, una Erinni o un angelo a seconda del giorno. I racconti degli amici, le fughe di notizie, le bugie: già l'ho fatto. Dici davvero? Sì, giuro, con Stefania al mare. E com'era? Bello. E a lei è piaciuto? Sì, tantissimo, ha goduto come una porca... Cazzate. Ormoni. Chiacchiere. Paura. Parlo con Nina e cerco di sfiammare questa attesa. Gira tutto intorno a quello. Le dico di non ascoltare troppe chiacchiere. Che non è nessun passaggio sacro o roba del genere. Che lo faccia senza costruirci troppo sopra, quando le va, quando si sente a posto. Che non deve essere col ragazzo della vita. Certo, neanche col figlio di Pacciani, ma che le scopate belle arriveranno dopo, molto dopo. Che imponga il preservativo, quello sì. Che è un po' come un dente che devi toglierti e poi giri pagina nella tua vita. Finalmente il tempo diventa sereno dopo questo uragano collettivo. Una cosa così. Flabia mi corregge. Aggiusta il tiro laddove sono un po' troppo secco e spietato. Fa bene. Io mi zittisco. Sto scrivendo un libro sull'adolescenza. Lo preparo da quasi un anno e presto scriverò la prima parola. Ho costruito con attenzione certosina la storia, i passaggi, gli snodi, i caratteri. Mi sembra bello. Ora devo solo scriverlo. Nel frattempo leggo Philip Roth e mi segno una frase importante di un libro che mi sta piacendo da impazzire. Dice: "la giovinezza è una volta soltanto, l'immaturità dura per sempre". Sono un tifoso dell'immaturità. Ormai per me inguaribile benedizione, una venerazione da vecchio ultras. Gli immaturi sono sempre fuori tempo, ovviamente, mi dico. Mi sento un padre che non sa dare consigli decenti alla figlia adolescente. O forse sì. Consigli da interpretare. Come le favole che le raccontavo da bambina prima di dormire che erano sempre la deviazione di una narrazione sana e decente, roba da servizi sociali. Con asini che erano sempre napoletani e io mi divertivo a farli parlare come Aldo Giuffrè; con cani sfasciati, monchi, difettosi, sempre immancabilmente veneti che io facevo parlare come De Michelis; con cavalli che non ce la facevano a reggere e allora iniziavano ad andare di corpo e costruivano montagne. Facevano ridere. Nina rideva. Non si addormentava e rideva mentre io crollavo dal sonno. Adesso ogni tanto me ne ricorda qualcuna di quelle che creavo sul lettone e mi dice che sono ricordi dolcissimi. Le dico che erano favole sbagliate, che non avevano mai una morale edificante, non avevano proprio nessuna morale per la verità, nessun insegnamento. Lei mi dice che proprio quella era la loro bellezza. Me lo dice qui. In questo viaggio fra le persone. A Playa Larga che potrebbe essere dovunque, anche a casa, senza spostarci di un centimetro. Viaggio e la conosco. Conosco queste sue improvvise saggezze. Penso che mia figlia stia diventando davvero grande quando dà risposte così, che a breve avrà la sua razione di belle scopate e di scopate da dimenticare, come tutti, che assisterà al dispiegarsi di questa assurda esistenza che se sei intelligente non perdi tempo a cercargli nè il senso nè il fine. Un po' come quelle favole lì. Una vita costellata di cavalli napoletani che ci fanno ridere, di cani vicentini, di montagne di merda che ci tolgono i panorami e di amori che fuggono via. E poi noi a chiederci dove, perché. Fino alla fine.

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