sabato 16 novembre 2019

Auguri Avana mia



Anche solo pensando di lasciare questo paese sento uno struggimento africano dentro. Oggi, correndo per Quinta avenida, cercavo, se non altro, di non abbassare i miei record negativi di sempre. Cercavo di correre quel minuto in più, quei trenta secondi, strappare all'atmosfera stoppacciosa che avevo intorno un respiro decente. Sentivo dolori dovunque. Nel costato, il mio perenne infarto, nel ginocchio, la mia menomazione, nella testa, il mio ictus, nel cuore, nel centro esatto del cuore, come fossi perseguitato da un tiratore scelto, il mio solito rivoltarmi nel passato, nel futuro possibile che non è mai stato, nei luoghi che appena li guardi di sbieco ti parlano come comari dai buoni riflessi.
Luoghi-che-appena-li guardi-ti-parlano, ecco, in questo paese, ma basterebbe dire in quella strada, in Quinta, si sono affollati ricordi oleosi come vendette, come un compagno delle elementari che non ha mai digerito una tua vecchia prepotenza e te la fa scontare a cinquant'anni, quando diventa non più il ripristino di un equilibrio improponibile, ma il senso rotondo della vita, la sua. La vita degli altri, dei luoghi inanimati che mi vedono correre, o non proprio correre, strisciare accanto a loro, come in un'intimità tutta nostra, di quello che resta di me e di quello che ha tolto la pioggia, giorno dopo giorno, e il sole e la nebbia della memoria. Dovrei lasciare da soli, per sempre, quei pomeriggi stupidi in calle 14 bevendo, offrendo, preoccupandomi dei soldi soltanto un po'. Preoccupazione sbagliata. Oggi lo so. Era povero non bere quelle birre, povero non sentire le chiacchiere di qualche amica. Interrogarlo col cuore quello scenario perché ti restituisca almeno i profumi di quelle giornate, almeno qualche rapida sequenza di pensieri, di umori, sì, certo, di umori che mi attraversavano allora. Era semplicemente gigantesco, come la mia vita. E l'hotel da due soldi, e quella camera ad ore dove sono andato due volte nascondendomi da tutto, ed ubriacandomi di un'altra notte finale. Forse non ho abbassato i miei record negativi, ma ho faticato molto oggi a non farmi tirare per il braccio, a non cadere in certi tranelli, a non congelare il mio sguardo su qualche dettaglio mortale. Già, di quella specie che ti cattura come in un sortilegio, di qualche sguardo che ti lascia di sale, appunto, o di pietra, o di carne che trema, che sbatte, che slitta, che si rialza, che cade di nuovo. Cosa sarei senza questa città, mi domando? Dove le avrei trovate certe intimità, certe distanze, la schiena dritta che riesco a sollevare ogni giorno di più, davanti agli altri, davanti all'età, davanti alla morte. Davanti agli altri era importante, certo. È stato il regalo più grande. La vertigine di guardare dall'alto il mondo, come potrò mai ringraziarti? Andando via? Lasciando seccare del tutto i miei sorrisi, le mie lacrime, negli angoli delle strade che mi hanno visto felice e triste e uomo. Lasciandoti sbiadire come un quadro senza più fortuna, passato. Quanto eravamo fragili, fragili davvero, tu ed io, in questo infinito decennio. Quanto eravamo il momento continuo che si consumava subito, che si consumava sempre. I nostri piedi d'argilla, il nostro cuore infinito, le nostre parole migliori, i nostri baci dolorosissimi, i nostri addii reali, i nostri incontri per gioco. Tu ed io, immensa città, che facevamo la gara a perderci l'uno dentro i vicoli dell'altro, l'uno nelle fantasie dell'altro, confondendo continuamente la realtà, bevendoci sopra, giocando all'amore, alla grazia, alla poesia. E sapevamo farlo. Tu ed io. Sapevamo leggerci poesie senza uscita prima di addormentarci. Noi e il nostro cazzo di tempo infinito. Ci crederesti? Sono qui che ti accarezzo, che ti accompagno, con la dolcezza dei vecchi, delle coppie che vanno a morire unite, senza scelta. Si abbassa il volume di tutti i rumori quando ti accompagno. Diventa tutto un brusio gigantesco, nostro, quello che esplode di tutte le parole taciute. Quando mi allontano, anche soltanto con un pensiero, mi sembra di perdere l'anima, lasciarla a te, nelle tue strade, consegnartela come un tesoro che aveva valore solo per noi. Vecchia città assurda, mentre corro, mentre attraverso queste eleganze che si avvicendano come governanti senza futuro, mi sembra che sia stato un amore insaziabile. Mi sembra che resterei per sempre a cantarti serenate, per sempre, fino alla morte ma anche dopo, con voci deformate, con note incomprensibili, con testi stravolti. Resterei lì anche il giorno in cui avrei perso la vena, e le parole, e la vocazione, e la memoria. Ti amerei sulla fiducia, o su un ricordo soltanto, o seguendo le indicazione di un appunto che conservo in tasca. Ti amerei come si ama quando si è perso tutto e tutto ritorna nei ricordi, come la dote di un pazzo. Correre, o strisciare vicino a te, poggiando lo sguardo ora su quel punto, ora sull'altro, sfuggirgli, perché un passato così impiega un istante ad impiccarti il presente. Nessuno dei due avrebbe scommesso un centesimo che saremmo durati. Questi anni, questi sentimenti divenuti costanti, persistenti. Potrei giurarti le solite menzogne. Tu lo sai. Ed ho la tentazione di gridarle al vento. Dirti che non me ne andrò. Che ci resto a morire tra le tue braccia, negli echi di quel mondo costruito insieme che ancora ho nelle orecchie. Ma andrò via, già lo sappiamo. Magari anche semplicemente morendo male, in un ospedale, lontano milioni di chilometri da questa nostra intima poesia. Quando si ama si deve essere pronti a tradire e ad amare il tradimento dell'altro. Siamo abbastanza vecchi per non saperlo. Vorrei soltanto passare la mano, non scomparire. Consegnare la tua bellezza a qualcuno che sappia apprezzarla, che sappia difenderla. Quando si ama davvero ci si preoccupa della felicità, non dell'eternità. E noi dell'eternità ce ne siamo sempre fregati. Fino ad oggi, anche se ne sentiamo il dolore.
Oggi un sole incandescente ha cercato di deviarmi i pensieri, i passi, i sentimenti. Ci ha pensato questa città a sollevarmi, a tenermi in piedi, a farmi ricordare le fragili ragioni di un passo, poi di un altro, poi un altro ancora fino a casa. Viviamo così, sempre sulla soglia di perdere le ragioni di una corsa, e ritrovandole a tratti, nelle cose, nelle bugie, nelle storielle  che si raccontano ai bambini perché vadano a letto e chiudano gli occhi.

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