Oggi
compio 53 anni. Mia madre in videochiamata mi racconta che sono nato alle tre e
un quarto del mattino. Mi dice che non è sicura, che tutti e tre noi fratelli
siamo nati a e un quarto. Oggi va a controllare nei suoi diari e poi mi fa
sapere. Mia madre ha scritto diari. Nel corso degli anni me ne ha letto
spezzoni, quelli che lasciava circolare malvolentieri durante le feste
comandate o i compleanni. Li leggerò mai per intero?
Chissà cosa vedeva, cosa
vede oggi, cosa si aspettava, che figlio vedeva crescere, che figlio vedeva
andare lontano. Eppure, proprio oggi che tutto sembra essere così terribilmente
serio, forse compromesso in qualche parte profonda di noi, oggi che potremmo
morire in un secondo (meglio ancora: oggi che tocchiamo questa nostra costante,
radicale fragilità) mi sembra che la serietà sia solo una maschera, forse
l'ultima, dietro cui si rifugia la vita. Te lo dicevo sempre che non era serio
niente. Lo vedevo. Era tutto un gioco. Hai presente? Un gioco. Il futuro, lo
studio, il lavoro, la carriera, i figli, la scrittura, gli amori, gli odi, gli
abbandoni, le esperienze, le ricchezze, le povertà, i nostri totem, i nostri
tabù. Ho provato a dirtelo in ogni momento, per ricordarlo sempre a me stesso.
Non c'era nessun relativismo snob in quelle parole. Erano le visioni di un
adolescente. Era un invito a non massacrarsi l'anima dietro ai fantasmi. Un
adolescente, appunto, questo è quello che sono. Te lo racconto, ti va?
Dell'adolescenza ma anche del gioco vorrei parlarti. La dimensione del gioco,
l'unica cosa che so. Lì mi sono fermato una quarantina d'anni fa. In mezzo a un
campetto di pozzolana alle porte di Roma, dove segnavo gol a ripetizione, dove
ero bravo, dove tutto era la metafora di
tutto, dove non era serio né vincere né perdere, dove ci si dannava per un
passaggio perfetto, per un gol in più e poi tutto finiva. Eri nel campo, ci
stavi dentro, ce la mettevi tutta, e poi finiva la partita e guardavi tutto da
fuori, il campo, le vicende di quella singola partita, tornando a casa. Una cosa
così mi sembra oggi la vita. Dipende tutto dalla dimensione da cui la osservi.
Più l'aereo prende quota e più i quadri superati del videogioco sembrano un
sogno, sbiadiscono, racconti inverosimili, nuvole. Con l'adolescenza, grazie
all'adolescenza, ho fatto ogni cosa. La serietà è una cazzata. La serietà è
davvero la morte. È aver frainteso l'intero testo della canzone e perdere la
voce. Dimmi cosa sono oggi i tormenti per quella donna che mi aveva lasciato
decenni fa, le angosce del servizio militare, le paure degli infiniti domani in
cui non sapevo se ce l'avrei fatta, i progetti, dove sono i progetti? Quelle
tonnellate di energia sprecata dietro al dettato delle responsabilità, dove
sono finiti gli sguardi che ti annientano, le timidezze, le scelte. L'hai
capita l'assoluta vacuità delle scelte? E la barzelletta della solennità dei
cammini? C'è il gioco. E tempo da passare. Si gioca agli scrittori, si gioca
all'amore, si gioca a crescere, si gioca alla vita. Un giorno sapremo se si
gioca alla morte. Tardi, tardissimo voglio saperlo, sia chiaro. Prima voglio
vederti invecchiare. Prima voglio vedermi invecchiare. Voglio vedere se avremo
la faccia tosta di farlo. Ovviamente non parlo dei miei splendidi capelli
bianchi, nè dei tuoi, nè delle nostre rughe, nè dei chili di troppo o del fiato
corto, insomma, non parlo del corpo che fa la sua strada. Parlo di me. Voglio
trovarmi ancora a sorridere di fronte a una scelta "difficile",
voglio continuare a ridergli in faccia alla preoccupazione sui soldi, all'ansia
prima di un discorso, sentire sempre dentro di me il fuoco dell'immortalità dei
quindici anni, quel senso d'infinito che ci portiamo dentro. Voglio tenerla
viva e pulsante dentro di me quella lezione del passato che m'insegna che tutto
si è risolto, sempre, tutto si é trasformato e tutto quindi cambierà. Meglio
non prendere niente troppo sul serio. Impermanenza. Così si chiama nel
Buddhismo. E poi non-sè. Tutto cambia, niente ha un centro, niente ha un sè
permanente. Tutto è vuoto. Non ti viene voglia di ridere? A me sì. I monaci
buddhisti, quelli più profondi, ridono spesso, ridono sempre. Hanno visto
qualcosa che li fa ridere di cuore. A cinquantatré anni - senti come suona
bene: a cinquantatré anni - tolto ogni peso, tolta ogni ansia, tolta ogni
serietà alle cose della vita, resta questo gioco ininterrotto, la gioia di
essere qui, su questa zattera incomprensibile che copre il tragitto dal mistero
al mistero. Viene voglia di amare anche questa reclusione assurda, anche questa
pioggia di distanze, queste frasi mozzate. La vita va amata soprattutto adesso,
mi viene da dire, proprio quando scopre le sue carte migliori, quelle che ti
faranno perdere. Amata come non ho smesso mai di amare quel campetto di calcio
di duemila anni fa, le sue regole, le mie imprese leggendarie. Un gioco.
Vogliamo capirlo?
Cinquantatré
anni e mi faccio gli auguri. È il miglior compleanno di sempre. Ci faremo gli
auguri per videochiamata. Che cosa assurda la videochiamata, ci pensi? Forse
verrà Nina a mangiare la torta. Forse metteremo un po' di musica. Bruno Mars,
voglio ascoltare soltanto Bruno Mars! Dice l'adolescente che mi siede accanto.
Flabia magari ballerà un pò, o canterà soltanto ed io la guarderò con tutto
l'amore che posso e berremo delle birre e diremo sciocchezze. Flabia farà delle
foto. Fa foto davvero bellissime. Che cosa assurda tutto questo, non trovi?
Assurdo e stupendo come la felicità. Ed io scriverò qualcosa di serio e un
minuto dopo mi verrà da ridere. Lo rileggerò cento volte e mi verrà voglia di
raccontarlo al mondo intero. Che bella cosa la vita, non credi?
1 commento:
bel pezzo ,bello e nonostante la dichiarata allegria sottende un intimo dolore. Colpa dell'orologio che scandisce le ore!
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