Parlavo
ieri con Alessio, un amico che vive qui all'Avana da molti anni, e ci
scambiavamo impressioni e paure sulla situazione. Cuba ha chiuso le frontiere
ed era quello che doveva fare, ora non ci resta che attendere. Attendere.
Questo soltanto dobbiamo fare adesso: aspettare. Mi diceva "perchè non
scrivi qualcosa su questa attesa?", io gli rispondevo che ero parecchio
scoglionato, che non ne avevo voglia. Stamattina continuo a non averla la
voglia. Ma ci penso all'attesa.
È la dimensione in cui siamo calati tutti, ad
ogni latitudine, e non siamo abituati, non ci piace, non mi piace. Carambolati
in pochi giorni dall'allucinazione del prendere, dell'afferrare, dal sacrosanto
diritto a fare del mondo il territorio della nostra volontà (e
rappresentazione), alla posizione difficile del ricevere, del dipendere, della
nostra sovranità sospesa e nelle mani degli altri. Gli altri. Quelli che non si
lavano le mani. Quelli che non si mettono a due metri di distanza. Quelli che
tossiscono. Quelli che non prendono provvedimenti. Quelli che se ne fregano.
Gli altri. Noi stessi. Tutti ad aspettare. In questo sistema complesso che
mostra tutta l'idiozia di una visione causa-effetto delle cose dell'esistenza.
Quando tutto c'insegna che siamo rapporti circolari, interdipendenza.
Nient'altro. Odio l'attesa. Il mio ego, quella specie di bossetto della camorra
che ognuno di noi si è visto crescere dentro, quello che vede nelle regole,
nell'idea di sistema, un attentato alla propria espressione, lotta da sempre
contro le attese. Mantra inossidabili come "mai mettersi nelle mani degli
altri", "mai imbavagliare quel Leonardo da Vinci che abbiamo
dentro" ci attraversano in ogni momento, in ogni frangente, nel lavoro,
nell'arte, nei rapporti, nell'amore. Il fastidio sempre rifuggito di essere
nelle mani dell'altro, di ciò che non dipende da noi: da un governo, da una
malattia, da una selezione. Il mio bossetto ha sempre odiato le file. Mia
moglie è disperata quando faccio il giro della città per trovare il negozio
senza code, i pagamenti del telefono la domenica pomeriggio, le spiagge
adiacenti ad una marana per non trovare la gente, i rientri intelligenti
all'alba. Finisce che compro il solito pacchetto di würstel del 1972, che mi
immergo nelle cloache, che impicco intere giornate di sole sul patibolo della
mia libertà. Mi sembra che sia proprio lì che si giochi questa partita del
coronavirus. Mi sembra che sia proprio questa la malattia, il veleno e il
vaccino che stiamo scoprendo oggi, ognuno nel proprio laboratorio personale.
L'allucinazione dell'io e la realtà delle cose. Siamo costretti dall'attesa a
vedere e rivedere e poi rivedere ancora la fragilità della separazione, la
stupidità della separazione. Se non altro, questa epidemia ha la forza di uno
schiaffone a freddo ai nostri ego che volevano conquistare il mondo. Ognuno il
proprio mondo. È un genitore d'altri tempi che ci rimette a sedere, che ci fa
capire che a tavola ci sono anche gli altri, che la carne è per tutti. Che
bisogna aspettare. Che siamo gli altri. Che senza gli altri non dureremmo
neanche un secondo. Che ci fa capire il fraintendimento supremo che essere
liberi non è fare quel cazzo che ci pare. Che quella non è libertà ma malattia,
è fascismo, è un io, in ultima analisi, minuscolo che soffre, che esercita
violenza, violenza radicale su quello che crede essere altro da sè.
Aspettiamo,
aspetto, scoglionato, nel mio mondo sospeso, nel viaggio che ho rimandato a
data da destinarsi, nei miei libri in pubblicazione che usciranno finita la
guerra, nella mia voglia ricacciata dentro di un weekend chissà dove, nelle mie
bevute. Aspetto. In questo mondo strano che sullo sfondo, nelle lucine ancora
impercettibili che intravedo dall'altra parte del mare, dopo le tragedie che ci
scorreranno accanto, appare più bello. Mi piace pensarlo diverso oltre le
montagne, come le macchie degli uccelli che d'inverno disegnano geometrie
meravigliose nei cieli di Roma, la bellezza di una sincronia di quel milione di
esseri che da soli certe opere d'arte non potrebbero neanche immaginarle. Mi piace
pensarci diversi dopo questa attesa, dopo questa tragedia, innamorati di nuovo
di questo gigantesco "noi" in cui riscoprirci belli.
E io che credevo… l’attesa fosse soltanto dolce: la dolce attesa delle partorienti. Stare in attesa del coronavirus? Ma è un incubo!
RispondiEliminaHai ragione. Fare la fila all’Etecsa o in qualsiasi tienda per comprare prodotti al doppio, al triplo del prezzo praticato sul mercato mondiale ti deprime e ti costringe a volte a fare tante giravolte per evitarle. Ma, ma… hacer la cola di 10/15 minuti per comprare 5 kg. di gelato a 100 pesos, oppure altri prodotti a prezzo irrisorio è un piacere, una dolce attesa a cui non si può rinunciare.