Non ho voglia di scrivere. Nessuna. Giro
intorno al mio computer come si gira intorno a un mucchio di panni da stirare,
a un pavimento zozzo, a una merda da raccogliere. Eppure avrei tempo. Quel
tempo che corteggio sempre con le mie lagne, quello che perdo, in quel
maledetto altrove in cui vivo e in cui recito di disperarmi. Ecco, ora ce l'ho.
Sta qui. Niente di meglio che una bella epidemia per non avere distrazioni.
E
invece sono distratto. Mi sento infiacchito di fronte ai progetti, di fronte al
futuro. Sento questa enorme fatica del domani che si prende tutto. Leggo, ma
anche leggere perde forza. Non vorrei dire che si legge o si scrive per
qualcuno ma visto da qui, oggi, sembra essere così. È come se un fallimento
gigantesco avesse tolto le ragioni del lavoro, il valore dei soldi, carta da
buttare. La gente muore e non è una grande novità. Ma la tragedia è questa
grande impalcatura che viene via. Quel misto di illusione e solidità che è la
vera architrave delle nostre vite. Che lo era. Leggeri, fragili. Ecco, di
nuovo, ripeto: leggeri, fragili, che dopo millenni di costruzione, nell’arco di
una settimana ci aggrappiamo a due mattoncini traballanti, a quello che resta
di un solaio crollato. Quello che resta: un repertorio di canzoni da gridare
sul balcone, la liturgia delle mascherine, la noia invincibile, lavarsi le mani
un milione di volte, questa fame di normalità, di automaticità, come una
bulimia antica di cibi cattivi. Quello che resta, l'eco ancora prossimo del
ruggito del mondo, il cigolio del treno veloce appena entrato in stazione, il
posarsi asincrono dei detriti di un'esplosione. E questa miseria di riti
semplici. Questo linguaggio privato rianimato dalle telefonate a tua madre,
l'ansia delle solite parole, dello sto bene, del non uscire, dei mi raccomando.
E le immersioni sfiancanti nella selva degli altri, del vero all'alba, dei
dubbi al tramonto, dei ciechi che parlano, che vedono, che indicano una via,
che recitano un'ultima battuta sul palcoscenico buio. Non ho proprio voglia di
scrivere. Eppure lo faccio. Per passare il tempo. Per far passare due minuti
anche solo a un lettore, anche solo a me stesso. Il tempo, mai così irritato
come oggi, come un'unghia rotta. Cosa farsene? E della vita, allora? Se siamo
soltanto questa invincibile fragilità, se siamo quello che siamo sempre stati e
abbiamo finto di non essere. Se ci accorgiamo che tutto il nostro universo
conosciuto era la reazione, sì, la reazione - hai capito bene - di secoli a
quella ineliminabile fragilità. Cosa ci resta? Se perdo l'appoggio sui libri
che ho scritto, se cado, se sono solo un coglione che cade nel vuoto e poco
altro. Che prega per rialzarsi, che è, stringi stringi, un grumo di canzoni,
preghiere nel vento perché nessuno che ami si ammali, se non conta nemmeno più
essere fico, coglione, scopare, bere, scrivere, i soldi, ridere, amare, odiare.
Resta questo alfabeto minimo di rilanci, rapidi orgogli, crolli fragorosi,
preghiere, riti di gruppo, paure del buio, distrazioni, informazioni, notizie.
Non ho proprio voglia di scrivere perchè non so a cosa sopravvivere. Perchè non
so se sia già finito tutto il nostro carosello e non sia ora di andarcene a
letto. Perchè non riesco a trovare una posizione in questa nuova condizione di
insetto sbattuto dal vento. Perchè non c'è scrittura in questa risacca, nè una
lettura possibile. Rotta la nostra complicità, rotto il nostro silenzioso
contratto sociale, perde valore anche questo libro di Busi letto fino a pagina
173, gli appunti presi la settimana scorsa sugli "Indifferenti" di
Moravia, quella pagina incredibile di Bolaño che ho evidenziato con un
pennarello giallo. Diventano tutti persone. Vive o morte, persone senza peso
che volteggiano nelle correnti, e si arrangiano, e strappano respiri alla
morte, ed occupano provvisori posti al sole, e cadono, e si spaccano la testa,
e pregano di non morire, non ora, davvero, ora proprio no, prendi un altro che
io devo finire una pagina importante.
Non ho voglia di leggere e meno ancora di
scrivere. Preferisco perdere tempo e confondermi. Bighellonare nello spazio
angusto tra una cazzata ad effetto letta chissà dove e un panino inutile alle 3
e 24. Oscillare nella percezione affilata tra lo stare bene e lo stare male,
come fossero luoghi, come fossero camere in affitto. Scivolare leggero nei
sentieri della preoccupazione e poi dell'indignazione e poi del risentimento e
poi della speranza e poi dell'orgoglio. O proprio stare qui, scomodo, a un
centimetro da me, dove la scrittura torna ad essere se stessa, quello che è
sempre stata, quello per cui è nata. Raffinata nei secoli, una parola alla
volta, una frase alla volta, un libro alla volta, una paura alla volta. Quel
grido primordiale di esseri terribilmente fragili sull'orlo della vita. O di
quello che resta.
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