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venerdì 30 aprile 2021

Il Coronavirus a Cuba

Il Coronavirus a Cuba
É passato più di un anno di Coronavirus a Cuba e, ben lungi dall'aver abbandonato la Isla e dirle addio, forse vale la pena raccontarlo per vederlo da vicino per un attimo e poi gettarlo lontano per sempre. 


La sensazione di tutti, non solo a Cuba, è quella di un anno solo sognato. Una specie di sonno difficile e una trama di quelle contorte e interminabili piene di soprassalti. Un sonno di quelli da cui ti auguri di svegliarti e non ti svegli.

Il Coronavirus a Cuba è arrivato come i cicloni. Una minaccia annunciata, descritta, temuta. Ma come i cicloni vissuta da tutti come un maltempo, uno di quelli che passano rapidi e ti riconsegnano al sole e alla vita.

Inizia il sogno del Coronavirus a Cuba


Ricordo che era marzo, o forse era già il sogno? Marzo e andavamo a bere svogliati nei locali di Paseo Maritimo. Avrebbero chiuso. Avrebbero chiuso? Ce lo domandavamo, non era sicuro. Non era sicuro niente. Ci passavamo nella bocca quella parola, Coronavirus, Coronavirus a Cuba, come un cocktail nuovo. 

In Europa sì che stava facendo male, non qui, non a Cuba. Ogni giorno una notizia diversa. Io mi afferravo alla tesi ragionevole che alle alte temperature il Coronavirus moriva. Sembrava possibile. E sembrava possibile restarsene a casa, quasi augurabile. Un tempo. Farà bene a tutti, vedrai. 

E poi la nuova moda passeggera delle mascherine. Provvisoria, vedrai. Appena farà caldo davvero il Coronavirus a Cuba sarà sparito e queste maledette mascherine le getteremo via.

E invece continuava, saliva. Iniziava il sogno. E ci svegliavamo tutti stralunati, delusi, sperduti, arrabbiati. Inutili. Inutili ci sentivamo a rincorrere notizie, numeri. Ma non ci eravamo svegliati: era sogno ancora. Avevamo sognato di svegliarci.

Nel sogno c'erano i numeri di Duran. Chi era Duran? Un uomo, un volto vero solo nei sogni, che indossava un camice bianco in televisione e ci raccontava di un'epidemia preoccupante. E le settimane e i mesi. 

E all'Avana alle 9 di sera la gente si affacciava sul balcone, nei portales, dalle finestre e applaudiva. Te lo ricordi? Strano sogno davvero: gli applausi ai medici, che cosa assurda, non trovi? E le frasi, e le parole, e le telefonate, e almeno dateci una data, almeno chiarezza. Quale chiarezza in un sogno. 

E la gente che iniziava a morire. E prima erano i cinesi, ma poi gli italiani. Quegli stronzi degli italiani. Libertà personali. Bene collettivo. 

Il Coronavirus a Cuba stava diventando quasi noioso, dai, cambiamo tema che questo non interessa più. 

E l'infermiera che la mattina bussava alla porta di casa e da dietro la mascherina sorrideva, sono sicuro che sorrideva. Le dicevo che ero vivo e lei sorrideva. Ma non ero vivo. Stavo morendo. Nel sogno stavo morendo. E le gocce da prendere, te le ricordi? Cinque gocce ogni martedì, senza fumare, senza bere per un'ora. 

E le birre e il rum, te li ricordi. E la poca voglia di scrivere. Il Coronavirus a Cuba, che titolo è? Avevamo tutti voglia di non parlarne nel sogno. Il Coronavirus era Cuba ma nessuno voleva vederlo. 

E io in moto a guardare la gente. E L'Avana vuota la notte che ci sembrava la luna, una luna leopardiana, tristissima. Quella notte che abbiamo rotto il coprifuoco ubriachi e siamo arrivati fino a 42. Abbiamo attraversato quinta e sembrava che fosse morto tutto e che niente volesse riprendere ad essere. Un sogno così, ci crederesti?

E poi le cose morbide che diventavano ruvide, come le giornate di riposo imposto per una malattia guarita. Il Coronavirus a Cuba ma nessuno l'aveva mai visto. Come un ladro al piano di sopra. E poi qualcuno iniziava davvero a morire, come una promessa. 

E allora avevamo paura nel sogno, e a mia figlia dicevo di fare attenzione e a me dicevo di fare attenzione ma era impossibile e mi bruciavo le giornate e franavo a volte e a volte mi rialzavo in una specie di resurrezione. Finirà questo sogno? chiedevo, e nessuno mi rispondeva, ognuno a lottare come un leone nel suo quadro del videogioco.

E poi piano piano iniziavamo a distrarci con i piedi per terra. Con il cibo da mettere insieme. Con le file. Con i consigli a mezza bocca. Con le telefonate della notte. Con le apparizioni del pollo, delle sigarette, della carta igienica, della birra. E poi le sparizioni. E poi chi partiva e mollava tutto. Chi tornava e gli si spegneva il sorriso in faccia. Ed eravamo sempre più amari e bui. 

La fine dell'anno e l'anno nuovo


Finiva l'anno nel sogno e facevamo altri sogni ingenui, che magicamente tutto terminasse lì, che ci svegliassimo, che morissimo davvero.

Il Coronavirus a Cuba era lì che ci aspettava il primo gennaio e anche dopo, come una canzone passata di moda ma che teneva tutti ancora in un ballo orribile in mezzo alla pista.

Poi le vaccinazioni prima o poi, poi i passi avanti, quelli indietro, in un girone senza nome di un pezzo di vita andato in malora. Forse fra un anno. Forse mai, anima mia. Forse non ci ameremo mai più e non rideremo più a pieni polmoni come prima di questa notte.

Salvarci la pelle, anima mia, per quale pelle, per quale vita ancora? Ci domandiamo adesso. In questo anno di sogno che ci ha attraversati come un fulmine il tronco di un albero togliendoci anima e vita.

E ora i conteggi. E ci vaccineremo. E ci salveremo. E ci sveglieremo una di queste mattine. E saremo ancora a marzo, quel marzo, il mese di un'innocenza indicibile. E attraverseremo calle Quinta piena di sole e guarderemo le donne cubane sorridere e sedurre il mondo e accendere la luce e spegnerla e ridere.

Il Coronavirus a Cuba non c'è mai stato, ma solo un sogno con quel nome, uno di quelli che la mattina restano negli occhi e ti rubano i colori. I colori.

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